Take Shelter (2011)
Categoria: Recensione
31 Dicembre 2019
di Jeff Nichols
con Michael Shannon, Jessica Chastain
Agli incubi non si comanda, e quando diventano ossessivi, la linea tra realtà, sogno e preveggenza non sembra più distinguibile. Molti i confini in discussione: tra preoccupazione e schizofrenia, tra fiducia e discriminazione, tra chi crede in un dato di realtà condiviso e chi ne percepisce un altro, forse folle, eppure più vivido di ogni altra cosa. Il limite tra chi è “normale” e chi normale non riesce più ad esserlo. Il protagonista si trova fiondato in questa terra di nessuno, tra visioni terrificanti e scelte quotidiane, tra la possibilità di salvare chi ama da una catastrofe e quella di essere, semplicemente, malato di mente. Musiche bellissime, recitazione superlativa, storia coinvolgente, personaggi ben costruiti e dialoghi perfetti. Da vedere fino all’ultimo minuto.
Visionario
In questo film del 2012 tira un gran vento di tempesta.
Una tempesta che vive nei sogni, o meglio negli incubi, di un americano di provincia. Un uomo medio e tranquillo, che tutto vorrebbe tranne che diventare “speciale”. Ma agli incubi non si comanda, e quando diventano ossessivi, la linea tra realtà, sogno e preveggenza inizia a sfumare.
Un film questo in cui molte frontiere vengono messe in discussione. Il confine tra ragionevole preoccupazione e schizofrenia, ad esempio, ma anche quello tra fiducia e discriminazione. O tra chi sente e ripete un dato di realtà acquisito e condiviso e chi ne sente e vede un altro, apparentemente folle, eppure più vivido di ogni altra cosa. Ancora, e forse più a fondo di ogni altro, il limite tra chi è “normale” nei suoi sogni, nelle sue paure e nei suoi comportamenti, e chi normale non riesce più ad esserlo, e si trova a dover decidere tra ciò che *sente* essere un pericolo incombente ma al tempo stesso appare completamente irreale – e ciò che per tutti gli altri è consuetudine, è affidabilità, è sanità mentale.
Se un individuo inizia ad avere delle motivazioni non “socialmente accettate” per temere qualcosa, e agisce di conseguenza, viene preso per matto dalla comunità che lo circonda. Il processo in sé è palese e anche condivisibile, ma allora, il fatto che la tempesta poi arrivi o invece non arrivi è quel che decide se era matto o no?
E ancora, se poi la tempesta arriva, e lui matto non è ma un “profeta”, d’improvviso sono matti tutti gli altri, che invece di costruirsi rifugi lavoravano, facevano shopping con o senza carte di credito e si riunivano a cene del Lion’s per “fare qualcosa di normale”?
In questi termini l’angoscia del disastro globale che monta di questi tempi, al di là delle varie profezie occasionali, si legge anche come una crescente e sempre più diffusa sensazione che il sistema di vita in cui abbiamo finora giocato “secondo le regole” stia andando in frantumi, politicamente ed economicamente, e che sempre più persone ne annuncino il tonfo come una vera e propria catastrofe di proporzioni bibliche – con o senza tsunami. E il film filtra anche metaforicamente su questo livello, in cui ci si può domandare se siano tutti “paranoici” quelli che avvertono che il danaro stampato dalle banche è solo un sistema di debito, e che questo sistema sta collassando, trascinando nell’abisso tutti gli Stati del mondo che ne sono diventati schiavi, e che il botto sarà immenso.
Il protagonista, Curtis, un superlativo Michael Shannon, si trova fiondato in questa terra di nessuno, a cavallo tra visioni terrificanti e scelte quotidiane, tra la possibilità di salvare chi ama da una catastrofe e quella di essere, semplicemente, malato di mente. Su questa linea sottile muove i suoi passi per tutta la vicenda, senza riuscire davvero decidere da che parte stare. Chiede aiuto a dottori e psichiatri, ma investe ogni suo risparmio per costruire un rifugio, mettendo in gioco la sua dignità, il suo lavoro, ogni cosa. Assume pillole per sedare i suoi incubi, ma continua a voler costruire il rifugio persino quando rischia di venire abbandonato da coloro che vuole proteggere.
Alla ricerca del sostegno di sua moglie egli giocherà le sue ultime carte, un sostegno senza cui null’altro avrebbe senso per lui. E che sia per decidere come curarsi o se ciò che vede è reale, che sia per vivere insieme o per morire insieme, fino alla fine, per Curtis soltanto l’ok di Samantha conta davvero.
Anzitutto, due note pragmatiche: al di là del fatto che un film si ferma dove si ferma e il resto è speculazione, stando alla narrazione filmica, Curtis e la sua famiglia vivono in Ohio, mentre Myrtle Beach si trova lungo la costa del Sud Carolina, a circa 900 km di distanza. Considerato che gli tsunami viaggiano piuttosto veloci, anche se rallentano presso le coste, è del tutto improbabile che i coniugi LaForche possano scappare in tempo dalla spiaggia. Per quanto possano muoversi in fretta, è evidente che troverebbero tutte le strade intasate dalla popolazione in fuga verso l’interno. E se anche si immagina che riescano in qualche modo ad allontanarsi dalla costa abbastanza da sfuggire all’onda, magari raggiungendo un qualche punto sopraelevato, si troverebbero in mezzo a un paesaggio devastato ed una folla di profughi disperati, lontani 900 chilometri dalla loro casa e dal loro rifugio. È dunque inevitabile che la tempesta in ogni caso li raggiunga lungo il tragitto. In questo scenario diventa importante decidere quanto gli altri aspetti della catastrofe, specifici ed evidenti nei sogni di Curtis, siano da considerare accurati o invece approssimativi. Se ad esempio persone e animali diventano pazzi e violenti sotto quella pioggia oleosa, i nostri eroi dovrebbero attraversare 900 chilometri abitati da una popolazione impazzita, evitando sia di farsi uccidere che di venire “contagiati” loro stessi.
Ho alcune altre osservazioni riguardo alla strana calma che mostrano nelle ultime scene. Curtis si era “lasciato convincere” di avere una semplice ossessione, senza pretese di preveggenza. Aveva accettato questa interpretazione, per cui non trovo affatto strano che, nel vedere la tempesta, rimanga più che altro sbalordito. Quando guarda la moglie e cerca il suo assenso, a mio parere sta “chiedendo” se lo vede anche lei, non fidandosi più delle proprie percezioni. E qui resta aperta la domanda, perché potrebbe anche essere solo un ennesimo sogno. Una possibilità che non si può escludere del tutto, ma che diversi dettagli mi fanno pensare dia errata. Nei suoi incubi, Curtis vedeva sempre la tempesta comparire e produrre effetti a spezzoni – passando dal cielo terso e soleggiato alla pioggia oleosa in pochi istanti e producendo effetti nefasti su animali e persone in pochi secondi. Le scene durante gli incubi non avevano una collocazione temporale logica e perdevano aderenza con la realtà in modo esponenziale, esattamente come avviene negli incubi, culminando con un climax di terrore ed il risveglio. Nella scena finale sulla spiaggia ogni singolo dettaglio appare totalmente realistico, al punto che lo stesso Curtis si mostra incredulo di fronte a ciò che vede. Nonostante ciò, sia lui che Samantha restano più scioccati che spaventati, non si eleva alcun climax emotivo fuori controllo, e il ritmo degli eventi non precipita affatto, procede con lucida e terrificante lentezza. Se sogno dunque non è, il fatto che anche Sam rimanga impietrita è più che comprensibile. Erano ormai parecchie settimane che suo marito le sembrava diventato pazzo, per quanto lo amasse, ai suoi occhi la possibilità che le sue visioni fossero premonizioni non era mai stata nemmeno contemplata, e certamente tutto si aspettava tranne di trovarsi sulle dita pioggia oleosa e di vedere arrivare un immenso tsunami all’orizzonte.
Alcuni critici hanno sottolineato che la previsione di Curtis era “sbagliata”, poiché nei suoi incubi visualizzava la tempesta in Ohio, mentre alla fine la incontra in uno scenario del tutto diverso. Anzitutto, va detto che la tempesta che Curtis vedeva era indubbiamente quella, la pioggia oleosa e i tornado la rendono inconfondibile. Il fatto che nei sogni la localizzasse attorno alla sua casa o al suo cantiere poteva essere semplicemente il modo del suo inconscio di assegnare alla sua premonizione uno sfondo “familiare”. Oppure, nulla vieta che quella tempesta sia di tali proporzioni ed eccezionalità da muovere dalla costa fin nell’entroterra, ovviamente non più come tsunami ma come tornado, o meglio un insieme di tornado, che poi è precisamente quel che Curtis sognava nei suoi incubi.
Un aspetto particolarmente doloroso che emerge ad una analisi approfondita del film è che se Curtis avesse abbracciato totalmente le sue premonizioni e fosse rimasto vicino al suo rifugio, se vi avesse trattenuto, persino con la forza, la sua famiglia, quel rifugio sarebbe stato per loro occasione di salvezza. Avendo invece rinunciato a credere in quegli incubi, avendo infine deciso che erano sintomi di malattia mentale, avendo persino accettato l’idea di dover lasciare la sua famiglia per farsi ricoverare in una casa di cura, si ritrova alla fine con la sua famiglia proprio sulla spiaggia, esposto in prima linea allo tsunami in arrivo, con possibilità praticamente nulle di salvezza. In qualche modo, il messaggio sembra essere: se volete credere a ciò che vi suggerisce l’immaginazione, per quanto folle appaia, fatelo fino in fondo. Crederci solo a metà vi porta comunque al disastro.
Ho trovato potentissimo questo finale. Anzitutto per le straordinarie musiche di David Wingo, che accompagnano in modo spettacolare lungo l’intero film la precisa gamma di oscillazioni emotive, tra illusione e visione, tra incubo e premonizione, tra lucidità e follia. E nell’ultima scena la musica sale gradualmente portandoci per mano verso l’ultima scioccante rivelazione, trascinandoci emotivamente ad accettare, a credere ciò che ormai avevamo scartato come irreale, infondendo insieme il vibrante crescendo emotivo e la maestosa, epica manifestazione di potenza distruttiva a cui ci troviamo ad assistere, attoniti insieme ai protagonisti.
Un’epica dell’incubo sottolineata da una sapiente scelta di fotografia, quella di mostrare pochissimo lo tsunami. Esso appare soltanto nelle ultime due riprese: la prima e unica inquadratura diretta, che dura esattamente cinque secondi, e poi ancora, per altri nove secondi, nel riflesso della porta a vetri alle spalle di Samantha. Il mostro insomma è soltanto annunciato, troppo grande per venire abbracciato totalmente dalla telecamera – rimane uno sfondo, per quanto terrificante, che lascia tutto lo spazio ai protagonisti e alle loro emozioni.
Ed ecco il terzo motivo per cui trovo questo finale degno di cineteca: lo scambio finale di battute, in cui Curtis sembra ancora una volta chiedere alla moglie se quel che vede stia accadendo davvero. Chiedere conferma, ancora una volta, di trovarsi insieme, dalla stessa parte della barricata. Certo, potevano essere semplicemente scioccati, o magari aver realizzato che era inutile tentare di fuggire, ma io propendo per una lettura differente. A quel punto, sopravvivere sembra aver perso importanza. La cosa che appare importante è quel riconoscimento reciproco. Così come Curtis era stato in grado di accettare la realtà di Samantha, anche al costo di considerarsi pazzo e di accettare di venire ricoverato, così lei in quell’ultima battuta accetta la realtà di Curtis. Adesso non è più necessario che si faccia ricoverare in clinica. Non deve più abbandonare la sua famiglia. Alla fine, quella loro curiosa calma, sembra affermare che è più importante morire insieme che vivere separati.
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