Attenti al GateKeeper
Categoria: Articolo
27 Novembre 2022
Il gatekeeper, letteralmente “custode del cancello”, è colui che assume una certa visibilità e autorevolezza all’interno di un movimento di protesta ma agisce con la finalità di monitorarlo e indirizzarlo, conducendo chi ne fa parte a scelte strumentali al sistema di potere vigente. L’immagine simbolica sarebbe quella di chi, gestendo un valico, controlla e indirizza i movimenti del bestiame, conducendolo secondo l’agenda dei padroni. Nel corso degli ultimi anni l’uso di questo termine si è sprecato, specialmente sui social network e all’interno dei movimenti di protesta.
Il primo problema nel valutare questa accusa è che praticamente qualsiasi comportamento o condizione finisce con l’esserne considerata prova. Se qualcuno esorta a scelte e comportamenti radicali, è un gatekeeper perché spinge a esporsi, facilitando identificazione e repressione di chi protesta. Se suggerisce condotte moderate e pacifiche, è un gatekeeper perché anestetizza e limita l’efficacia della protesta. Se predica la rottura completa col sistema è un gatekeeper perché facilita l’assimilazione del dissenso a terrorismo. Se propone forme di dialogo con le istituzioni è un gatekeeper perché vuol scendere a patti col nemico. Se sposa dalla prima all’ultima ogni istanza e dettaglio della protesta, contraddizioni incluse, è un gatekeeper perché con tutta evidenza finge per ottenere consenso. Se invece, su uno o più aspetti, non sposa affatto una posizione o lettura degli eventi diffusa nel dissenso, ecco che “si è tradito” e ha svelato la sua vera natura di gatekeeper.
Negli anni ho letto, visto e sentito incolpare di essere un gatekeeper praticamente chiunque avesse un seguito superiore alle cento persone, sulla base di motivazioni di ogni genere. Ovviamente, io stesso sono stato oggetto dell’imputazione, con le motivazioni più strampalate che possiate immaginare. Una delle più diffuse – e francamente comiche – è l’accusa di dedicare “troppo” tempo alla protesta o all’attivismo, implicando dunque che tale attività sia finanziata da fonti oscure. Persino darsi “troppo” da fare, diventa sospetto. Insomma, un po’ come nel campo opposto si considerava sospetto di essere “malato asintomatico” chi godesse di ottima salute. Un’altra accusa davvero ingegnosa che mi è stata rivolta fu, letteralmente, di “ricevere troppi like”.
Il livello di diffusione di queste accuse campate per aria è talmente vasto da finire col produrre persino una fascinazione sinistra: c’è stato almeno un caso in cui una persona con cui ero in contatto ha ammesso, più o meno pubblicamente, dopo qualche anno di attivismo e alcune pessime figure, di essere un “infiltrato” nel movimento novax. Personalmente, ritengo che l’abbia fatto perché preferiva apparire uno furbo in malafede che un coglione in buona fede, ma tant’è.
Chiunque abbia studiato la storia antica e recente dell’intelligence sa bene che i sistemi di potere infiltrano regolarmente operatori nei movimenti dissenzienti. Era già costume farlo durante l’impero romano, duemila anni or sono: non solo i governatori intrufolavano informatori nei movimenti locali per tenere sotto controllo le spinte ribellistiche nelle provincie, ma i senatori avevano i loro gatekeeper sparsi nell’urbe per controllare l’umore della plebe[1]. In pochi però sanno che, non troppo raramente, informatori e gatekeeper finiscono per sposare la causa che avrebbero dovuto controllare e anestetizzare. L’esempio più eclatante è Adolf Hitler, che iniziò a frequentare le riunioni del partito tedesco dei lavoratori (DAP) come informatore dell’esercito della repubblica di Weimar, poi se ne innamorò al punto da diventarne il Führer supremo[2]. Mi pare dunque del tutto logica e verosimile, nel contesto attuale, la presenza di agenti informatori appartenenti ai sistemi di intelligence pubblici e, considerato il passaggio di consegne del potere in corso, magari anche di società private.
A mio parere però, la diffusione di sospetti e paranoie reca più danno da sola al movimento di quanto ne possano recare le azioni di questi operatori. Quasi ogni volta che sento qualche esponente del dissenso lamentarsi della carenza di unità nel fronte della protesta, nelle parole successive viene nominato qualche altro esponente, con l’accusa più o meno esplicita di essere un gatekeeper. Mi pare intuitivo che questo livello di sospetto e paranoia non conduca ad altro che ulteriori divisioni, sospetti e ripicche. Porsi domande e osservare con attenzione critica le scelte di chi ci circonda è del tutto sano e ragionevole, aiuta noi e chiunque altro a chiarirsi le idee e valutare con maggiore profondità le proprie scelte e direzioni. Diffondere sospetti gratuiti ed amplificare paranoie, quando non gettare direttamente fango a vanvera, sulla base di invidie o antipatie personali, è invece tutt’altra faccenda.
Io ho sempre rifiutato di applicare questa etichetta ad alcuno, così come ho evitato di replicare ad accuse strampalate, ed invito costantemente chiunque, noto o poco noto, a fare lo stesso. Cercare negli altri la malafede è facile ed ingannevole, e anche chi non sa granché di psicologia dovrebbe aver chiaro il meccanismo della proiezione: condanni negli altri ciò che non puoi sopportare di te stesso. Invece di sparlare di altri, impegniamoci individualmente ad essere migliori: più chiari, più trasparenti nelle nostre azioni, più efficaci nei nostri comportamenti.
Non sta a noi giudicare le intenzioni altrui: la buona fede, l’impegno genuino e la sincerità delle persone emerge inevitabilmente nel corso del tempo, e gli anni di lotta che molti tra noi hanno accumulato sono il campo di prova e la cartina tornasole per capire davvero chi esprimeva ciò che era e chi invece stava giocando sporco, cercava un utile immediato o faceva soltanto spettacolo.
Invece di cercare ovunque i guardiani del bestiame, smettiamo di essere bestiame.
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