il guinzaglio di Facebook
Categoria: Articolo
20 Agosto 2019
Devo avvisarvi subito: è lunga e piuttosto complessa. La renderò breve e semplice quanto possibile, ma non posso fare miracoli. In alcuni passaggi dovrò anche banalizzare assai, chi se ne intende porti pazienza.
Tutto comincia nel modo più ovvio, Facebook vuole che tu sia un utente felice, per cui ti crea stimoli che ti rendano felice. L’idea iniziale era: ti iscrivi, scegli qualcuno come “amico”, io ti faccio vedere i post dei tuoi amici. Vedi anche il post di qualcuno che non conosci, se gli metti il “mi piace”, io ti faccio vedere i suoi prossimi post. Tu sei felice, loro sono felici, invitate altri amici, Facebook cresce, le ditte mi pagano per farvi vedere delle pubblicità. E così è stato per qualche tempo, mentre Facebook diventava sempre più grande.
Poi qualcuno ha scoperto il legame tra la produzione di dopamina, i commenti, l’attenzione di gruppo e i “like”. Ve la faccio breve: hanno scoperto che i like creano dipendenza. E hanno deciso di sfruttare questo meccanismo. Ecco perché, ad esempio, i profili privati possono avere solo 5000 “amici”. Cosa credevate, che “non ci fosse spazio” in un qualche hard disk? No, no: è un limite che hanno deciso a tavolino, e ora vi spiego perché.
Anzitutto, occorre creare assuefazione. Quando uno si iscrive a Facebook, quanti contatti ha? Due? Sei? Trenta? Se è un tipo con molti amici, magari pure cento. I suoi post sono visibili a queste persone, magari a qualche loro altro contatto. Raggranella uno, due, cinque, quando fa il botto venti like. E si abitua a riceverli. Col passare dei mesi e degli anni, il numero di contatti cresce e con essi cresce il numero dei like. E con i like, cresce il livello di assuefazione. Quando arrivi ad avere 5000 contatti, di like ne prendi da qualche decina a parecchie centinaia, persino qualche migliaia, a seconda di quanto interessanti siano ritenuti i tuoi post dai tuoi “amici”. È a questo punto che Facebook ti informa che non puoi avere altri amici, e che devi trasformare il tuo profilo privato in una “Pagina”
Le Pagine Facebook sono gestite secondo algoritmi diversi dai profili. Di nuovo, facendola breve: la loro visibilità è decisamente inferiore. In pratica, se un post pubblicato su un profilo con cento amici viene reso visibile a novanta di loro, lo stesso post, pubblicato su una Pagina seguita da cento persone, compare soltanto a trenta tra loro. Il risultato è che tu, abituato a ricevere centinaia quando non migliaia di like – e il tuo cervello, assuefatto a produrre dopamina reagendo a questo stimolo – ti trovi a ricevere poche decine di like, pur scrivendo le stesse cose di prima, con gli stessi “amici” di prima. Sim sala bim, ti hanno creato un bisogno che prima non avevi. È esattamente quel che fanno gli spacciatori di droga: prima te ne forniscono di ottima, magari anche a buon prezzo, e quando sei assuefatto e ne hai bisogno, la tagliano, cioè ne riducono la potenza, per costringerti a comperarne di più, per farti accettare di pagare il doppio.
Perché mai Facebook dovrebbe importi questa sofferenza? Ovviamente, per guadagnarci. Vuoi mettere in primo piano il tuo post? Vuoi che lo vedano (di nuovo) migliaia di persone? Basta che paghi ed è subito fatto. Certo, si parla di qualche euro a testa, ma gli utenti attivi su Facebook sono due miliardi e 41 milioni. Anche fosse solo un 5% a pagare per ottenere di nuovo la visibilità che ha perduto, fate voi le moltiplicazioni. Puro e semplice guadagno. Perlomeno, questo era il motivo all’inizio. Poi però è successo qualcosa che non era previsto: internet e i social network sono diventati un luogo in cui le persone passano il tempo non soltanto a cazzeggiare, ma anche una fonte di informazione. E questa funzione presenta un tasso di crescita che la renderà entro pochi anni la principale fonte di informazione. Già oggi, una enorme quantità di persone reperisce informazioni e costruisce le proprie opinioni proprio nei social network. Ed ecco perché il gioco ora si è fatto sempre più duro.
Dunque, la visibilità di un post su Facebook, ormai non è più soltanto una questione di qualche euro in più in cassa. Ora diventa anche questione di chi vinca le elezioni presidenziali negli Stati Uniti; se si faccia la BrExit oppure no; se Greta sia la salvatrice del pianeta o un alibi dei potenti; se i gilet gialli siano criminali facinorosi o invece patrioti massacrati da una polizia fascista; se la Monsanto sia una stimata ditta o una organizzazione criminale; se Putin sia un dittatore o un paladino della volontà popolare; se una epidemia di morbillo esista davvero oppure no. E come capite bene da soli, queste decisioni mettono in palio interessi molto, molto più grandi della pensione di Zuckerberg.
Ecco perché è iniziata la censura su Facebook – e su Twitter, e su Instagram, e su Amazon, e su Google, e insomma dovunque fosse possibile forzare, comprando o minacciando, dei gestori di servizi internet a usare questi algoritmi e questo meccanismo di dipendenza dopaminica per orientare la diffusione di informazioni. Per controllare la creazione di opinioni. La censura è arrivata in diverse forme. La più comune è un ritocchino agli “standard della comunità”. È il metodo più semplice: basta aggiungere una riga che dica: «vietato diffondere notizie false o che creano allarme», ed è fatta: parlare di un bombardamento crea allarme, quindi via, post cancellato e utente silenziato. Pubblicare dati statistici che negano una epidemia è dichiarato “falso”, anche se è vero, via: post cancellato e utente silenziato. Cosa può fare un utente, come può provare che il dato era reale, a quale tribunale può ricorrere? A nessuno. Può solo piegare la testa e aspettare che finisca la “sospensione” per tornare a ottenere i like a cui è stato assuefatto. Un metodo ancora più sottile e purtroppo utilizzato in maniera massiccia è quello che io definisco il “nerfing”.
Il termine viene dall’ambiente di chi fa modding dei videogiochi, significa in sostanza “ridurre la potenza”, “abbassare il livello” di un dato strumento. Come si applica sui social? Facile: riducono la visibilità di un post. Tu lo scrivi, ma lo vede un decimo della tua utenza. Capiamoci, non è che c’è un pirla che ogni mattina legge un mio post per decidere se applicare una riduzione della visibilità, eh. È un lavoro svolto da algoritmi. Cercano alcune parole ed espressioni chiave; le intrecciano con ricorrenza delle stesse in altri post dello stesso autore; con ricorrenza nei commenti, nelle repliche; con i gruppi in cui i post di quell’utente vengono più spesso condivisi e commentati, fanno il loro calcolo e sim sala bim, il tuo post che prima vedevano in cento, ora lo vedono in dieci.
Il nerfing, come la censura, limita efficacemente la diffusione di un certo tipo di messaggio. Se prima arrivava a ventimila persone, ora arriva al massimo a duemila. Rispetto alla censura però, offre un vantaggio: all’utente non viene comunicato nulla. I suoi post non sono stati censurati, non sono stati cancellati, lui non è stato sospeso. Sia mai che si incazzi, che trovi modo di protestare, di fare causa in qualche modo, o anche soltanto che abbandoni il social. Niente di tutto questo: i suoi post “sgraditi” diventano semplicemente quasi invisibili, ma ufficialmente non è successo nulla. Tranne, ovviamente, che sono calati i like.
E qui scatta l’effetto più potente: l’utente che posta *un certo tipo di messaggi*, a seconda di quanto pesantemente l’algoritmo li giudica, si trova la visibilità e dunque i like ridotti del 20, del 40, anche del 90%. Ed ecco che il suo cervello, ubbidiente e assuefatto, gli riduce in misura proporzionale il rilascio di dopamina. Ed ecco che arriva la tristezza. Sei triste, e non sai perché. Certamente non può essere per qualche like in meno, fossero anche un decimo di prima, che cosa vuoi che te importi dei like, mica sarai uno sfigato che conta i like tu, vero? No, ovviamente no. Ma il tuo cervello sì. Si chiama: associazione stimolo-risposta. Alla lunga, il tuo cervello “imparerà” che se posti certi contenuti, poi sei triste. Il tuo cervello, giorno dopo settimana, dopo mese, dopo anno, verrà addestrato a non accogliere, a non diffondere, a non postare quei contenuti. Si chiama: addestramento psico-chimico.
Ditemi, quanto vi piace l’idea di essere dei ratti da laboratorio che stanno addestrando proprio in questo momento a cosa pensare, a cosa esprimere, a cosa non pensare né esprimere?
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pubblicato su DolceVita
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