La Censura del Pensiero
Categoria: Articolo
8 Gennaio 2021
È ormai consueto trovare che un post, un commento, una immagine o un video su un social network siano stati rimossi od offuscati o altrimenti squalificati. Azioni intraprese da oscuri moderatori o ancora più ambigui “fact-checker” . La motivazione varia da “incitamento all’odio” ad “incitamento al suicidio” fino a “diffusione di notizia falsa”, ma è sempre e comunque accompagnata (e apparentemente legittimata) dalla “violazione delle regole della community”. Ma chi decide queste regole? Con che potere? In violazione di quali garanzie e diritti universali, indipendenti dallo strumento contestuale?
La censura sui social è due volte iniqua. Lo è sia nel concetto di fondo che nella sua attuazione.
Il primo luogo, lo è nella sua applicazione, perché la valutazione che un contenuto violi “le regole della community”, avviene in modo totalmente arbitrario. Quando non sono direttamente degli algoritmi a deciderlo, lo fanno misteriosi moderatori privi di nome e volto, con cui è impossibile interloquire e sulle cui decisioni non è possibile discutere. Persino quando esprimere opinioni configura un REATO – quindi una violazione delle leggi dello Stato e non delle regolette interne di una azienda – secondo la Costituzione Italiana è diritto e dovere dell’autorità giudiziaria intervenire e certamente NON di anonimi moderatori che rispondono a interessi privati.
Ma chi sono questi poliziotti virtuali? Chi li nomina? Che preparazione hanno? A quali regole devono rispondere? Stabilite da chi? Non stiamo parlando di come si autoregola un club di radioamatori, stiamo parlando di come viene quotidianamente disciplinato il diritto di espressione di miliardi di persone su tutto il pianeta. Questo binomio tra totale assenza di trasparenza e assoluta arbitrarietà delle decisioni è, semplicemente, una forma di gestione del tutto inaccettabile.
In secondo luogo la censura sui social network configura un illecito di fondo ben più grave, consistendo nella sostanza in una palese violazione del diritto di libera espressione delle opinioni garantito dall’articolo 21 della Costituzione Italiana. E, no: il fatto che i social siano imprese private non li autorizza a farlo. Anche le imprese private sono tenute a rispettare le leggi, tanto quelle sancite dai trattati internazionali quanto quelle degli Stati.
I social sono strumenti privati, ovviamente, e per questo caschiamo come asini nella trappola del “hanno il diritto di decidere che contenuti accettare”.
Come se io, comperando una strada o una piazza, ottenessi il diritto di decidere *di cosa* possano o non possano parlare coloro che vi passeggiano. Come se ottenessi il diritto di mandare in giro gente da me scelta che li obblighi a tacere se dicono qualcosa che non mi piace o che reputo inadeguato. Come se comperando una strada o una piazza io ottenessi il diritto a farvi valere le MIE leggi, in aperta violazione di quelle dello Stato e persino dei trattati internazionali. Esistono limiti precisi a ciò che un privato può fare e ciò che non può fare, e censurare l’espressione delle opinioni non è atto consentito a nessun privato, in nessun modo e in nessun caso.
È lo stesso, identico processo globalmente in atto in molti altri ambiti. Bill Gates si è comperato l’OMS, e di fatto si permette di decidere come tutti debbano curarsi. Chi si è comperato i media decide chi debba esser considerato presidente degli Stati Uniti, chi sia un terrorista e chi un patriota, e persino di quali malattie debbano aver paura le popolazioni di tutto il mondo.
I social network, in linea con le altre maggiori potenze economiche e commerciali del pianeta, stanno distruggendo, giorno dopo giorno, davanti ai nostri occhi, ogni tipo di autonomia, ogni diritto, ogni garanzia: dall’espressione del pensiero fino all’inviolabilità del proprio corpo.
Vi sono due modi di limitare la libertà di espressione degli individui. Uno consiste nell’imbavagliare un individuo, impedendogli di parlare, ed in tale condotta la violazione è facilmente individuabile.
L’altro, più insidioso, consiste nel fornire a chiunque un megafono gratuito, togliendolo selettivamente a pochi, selezionati, individui. In sostanza, anziché togliere voce a qualcuno, si aumenta il volume di tutte le altre voci.
L’effetto risultante è identico: si crea una evidente disuguaglianza nella libertà di espressione e diffusione delle proprie opinioni, di fatto rendendo inaudibile il pensiero di pochi. E questa disuguaglianza è una violazione del dettato costituzionale, che viola de facto un diritto garantito a tutti come inviolabile.
I proprietari dei social network non hanno alcun diritto di limitare l’espressione delle opinioni degli utenti. La deriva in atto è soltanto l‘ennesima forma di demolizione controllata dei diritti garantiti dalle Costituzioni di tutto il mondo.
“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.
Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili.”
Benché anche in ambito giudiziario non siano pochi gli sforzi delle multinazionali di ridurre all’obbedienza giudizi e tribunali di ogni ordine e grado, di fatto molti tra essi restano fedeli agli ideali che hanno sposato e alle funzioni che hanno giurato di svolgere. E difatti non poche sono le sentenze che hanno già condannato abusi e violazioni imposte dalle corporation ai danni di individui e popolazioni. Nello specifico, già diverse cause sono state vinte contro i social network per aver violato il diritto alla libertà di espressione, specificamente in ambito politico.
Ritengo che siano più che maturi i tempi per promuovere un’azione legale di ampia portata, che segni una svolta e metta un freno decisivo a questa degradazione dei diritti inviolabili della persona. Credo che tramite essa debba venire richiesto un risarcimento colossale, di decine o centinaia di milioni di euro, che crei un precedente chiaro e inequivocabile e sia un monito a livello mondiale nei confronti delle inaccettabili violazioni ai diritti fondamentali dell’essere umano.
Occorre stabilire un precedente che indichi in modo chiaro ai proprietari dei social media che non hanno l’autorità né il potere di decidere quali pensieri possono venire espressi e diffusi e quali no, né hanno l’autorità di censurare in modo arbitrario il pensiero degli individui in totale assenza di controlli e garanzie.
L’alternativa significherebbe accettare che i proprietari dei social network sono diventati, a tutti gli effetti, i veri padroni dei nostri pensieri. Che hanno il diritto di disciplinarli, di censurarne l’espressione e di decidere di cosa possiamo parlare, e di cosa no. E poiché la parola configura il pensiero, cosa possiamo pensare e cosa no. Davvero qualcuno desidera vivere così?
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