Identità Zero

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Pubblicato il: 6 Maggio 2015

Mindfucking3, Identità Zero è un saggio di Stefano Re. Per chi ha già analizzato nel libro Mindfucking, come fottere la mente, le tecniche più efficaci e le dinamiche più comuni con cui si creano, modificano e gestiscono la percezione di Realtà e Identità, è venuto il momento di passare oltre e andare a guardare da vicino ciò che origina tutto quello che viviamo: la nostra identità.

Con la consueta forza polemica, Stefano Re analizza la sfera dell’identità spiegando le ragioni che sovrintendono alla sua formazione, al suo condizionamento e alle sue possibilità di trasformazione. Processi complessi in cui, con ruoli distinti, intervengono i media, la cultura, i generi sessuali, la socialità virtuale, la moda, la politica, la pubblicità.

Un viaggio spietato e per nulla scontato nei meccanismi che ci creano per ciò che siamo, o crediamo di essere, attraverso i media, la famiglia, la cultura, l’economia, le religioni e gli affetti, fino al nucleo più prezioso che portiamo a spasso ovunque e in ogni istante, scambiandolo per ciò che siamo, alla scoperta di come e perché abbiamo imparato a crederci.


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Estratti da Identità Zero

» Scimmiottando

» Il Grande Fardello

» Brawndo e il pensiero circolare

» Equivoco di civiltà

» La difesa

» Il teorema del babau

» Il perché

» Il premio

 


SCIMMIOTTANDO

Secondo Darwin, noi discendiamo dalle scimmie.
Secondo chi le studia, le scimmie agiscono per imitazione. Una scimmia vede una persona prendere in mano un libro e sfogliarlo, e dunque prende in mano un libro e lo sfoglia. Questo comportamento non ha solo una funzione aleatoria, è in effetti il metodo tramite cui vengono individuati e selezionati i comportamenti “vantaggiosi” da adottare. Se ad esempio la scimmia scopre che ogni volta che apre un libro e lo sfoglia gli viene dato uno zuccherino tornerà a compiere quel gesto. Se al contrario scopre che ogni volta che lo compie il proprietario della libreria infuriato la bastona, è difficile che faccia della lettura il suo hobby. Questo stesso processo vale per la scelta del ramo cui appendersi, o della zona in cui cercare cibo, insomma per qualsiasi comportamento che disegna la “personalità” di una scimmia.
Non è la sua identità di “scimmia lettrice” a farle venir voglia di leggere un libro, è il desiderio di imitare un modello che trova interessante a disegnare la sua potenziale identità di “scimmia lettrice”. A seconda del risultato in termini di soddisfazione o disagio che il modello adottato comporta, esso viene ripetuto e diventa presto parte della “personalità” o invece viene scartato come svantaggioso.
Secondo me, in questo aspetto non siamo affatto discesi: siamo ancora esattamente come le scimmie. Da bambini osserviamo un fratello maggiore, un genitore, uno zio, un vicino o qualsiasi altra immagine identitaria abbiamo a portata, e ne scimmiottiamo gesti e caratteristiche che poi nel corso degli anni diventano le radici di ciò che “siamo”. Di norma poi, ci dimentichiamo costantemente di questo processo, il che è più che comprensibile: è cosa ben diversa poter dire “del resto sono fatto così” piuttosto che dover dire “io ho scelto e continuo a scegliere di essere fatto così”. Chi vuole assumersi la responsabilità dei propri limiti?

© Stefano Re 2010

 

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IL GRANDE FARDELLO

Ecco che la tecnologia è venuta in soccorso con la televisione. La televisione offre un campionario di modelli comportamentali praticamente infinito e in continua variazione: il protagonista di un film o di un telefilm, quello dei cartoni animati o di una trasmissione qualsiasi. Ma ciascuna di queste figure ha uno spazio di presenza assai limitato nella giornata del bambino: compare ad un dato orario nel caso di un telefilm, compare solo una volta nel caso di un film. I modelli comportamentali che invece la televisione offre a ritmo continuo e sincopato sono altri, e precisamente quelli delle pubblicità. Nelle pubblicità compaiono persone di ogni età, di ogni ceto sociale, di ogni livello culturale o etnico, e vengono ripetuti e ripetuti un numero impressionante di volte. E sono tutti – invariabilmente – modelli vincenti. Modelli felici, soddisfatti, amati e rispettati. Ciò è ovviamente connaturato alla natura stessa della pubblicità: essa utilizza per fini commerciali modelli studiati per essere altamente appetibili. Il piacere di identificarsi in essi vuole essere collegato secondo lo schema pavloviano più classico al piacere di possedere o utilizzare un dato bene o servizio, inducendo al suo acquisto. Ecco come e dove i bambini da generazioni trovano i loro modelli comportamentali più disponibili: il manager di successo che guida quella macchina o la donna ammirata che mangia quel gelato. Che poi se ne rendano conto è quasi impossibile. Se domandi ad un bambino chi vuole essere citerà certamente qualche figura più carismatica del personaggio di una pubblicità. Potrebbe dire l’astronauta o l’agente segreto o il supercriminale o il calciatore di fama, ma il sorriso e i gesti che nella sua mente disegnano quel personaggio sono presi direttamente dalla fonte che ha disponibile: la pubblicità.

© Stefano Re 2010

 

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BRAWNDO E IL PENSIERO CIRCOLARE

Uno degli aspetti più inquietanti dei modelli identitari proposti dai media riguarda la forma mentis che li caratterizza. In televisione, o sui media in generale, vengono fornite un gran numero di informazioni, ma sono tutte strutturate per guidare il pensiero a questa o quella conclusione. Così, dal programma di approfondimento al documentario, dal talk show fino ai 30 secondi di uno spot, siamo di fronte a precisi percorsi mentali che conducono lo spettatore ad una conclusione. Ciò che i media fanno è produrre domande e fornire risposte, sostituendo il ciclo completo del pensiero. Ecco che allora lo spettatore si trova a scoprire che ci sono dei pericolosi germi nell’ambiente, pronti ad aggredire la salute dei tuoi bambini, e che c’è un prodotto perfetto per igienizzare tutto e assicurare loro un futuro radioso; così scopre che non tutti i pneumatici sono uguali, alcuni permettono di frenare in tempo e altri no in caso di necessità; così scopre che questa o quella persona sono state uccise per interessi economici o di potere da questa o quella fazione o gruppo di potere; così scopre che c’è una guerra in qualche paese del mondo e che chi la sta facendo la sta facendo per il petrolio o per la religione o per questo o quell’altro motivo più o meno segreto e inconfessabile. Lo spettatore è imbottito di fatti e informazioni al punto di sentirsi istruito e preparato, mentre quello che avviene è che non ha in alcun modo pensato. È stato soltanto guidato per mano, come un bambino, attraverso un percorso che gli fornisse prima una domanda e poi una risposta. Il lato più spaventoso di questo processo è che non soltanto allena a non pensare, ma crea quello che potremmo definire pensiero circolare o autogiustificantesi. Eccone un esempio stereotipo ed illuminante tratto dal film Idiocracy. Il protagonista, Joe Bauers, proiettato in un futuro in cui l’umanità ha perso la capacità di pensare, si trova coinvolto in una discussione coi massimi livelli dello stato riguardo al fatto che nei campi non cresca più l’erba. I campi vengono annaffiati con una bibita per sportivi, il Brawndo, che per vari motivi ha surclassato l’acqua in ogni suo utilizzo tranne quello degli scarichi fognari. La assillante campagna pubblicitaria di questo prodotto afferma che Brawndo possiede “what plants crave” (ciò che desiderano le piante) e “its got electrolities” (ha gli ellettroliti). Ecco il dialogo:

Joe: “Per l’ultima volta, sono piuttosto certo che sia quel prodotto, il Brawndo, a uccidere le piante.”
Segretario di Stato: “Ma Brawndo ha quello che vogliono le piante. Ha gli elettroliti.”
Ministro della giustizia: “Aspetta un attimo. Stai dicendo che vorresti che dessimo l’acqua alle piante?”
Joe: “Esatto.”
Ministro della giustizia: “Acqua. Come quella del cesso?”
Joe: “Beh, non dico proprio quella del cesso però sì, l’idea è quella.”
Segretario di Stato: “Ma Brawndo ha quello che vogliono le piante.”
Ministro della giustizia: “Sì, ha gli elettroliti.”
Joe: “Ok, sentite. Le piante non stanno crescendo, quindi sono piuttosto certo che Brawndo non funzioni. Ora, non sono un botanico, ma so che se metti l’acqua sulle piante, quelle crescono.”
Ministro dell’energia: “Beh, non ho mai visto piante crescere nel cesso.”
(..)
Joe: “Ok, sentite. Volete risolvere questo problema. (..) Quindi perché semplicemente non ci proviamo e non stiamo a preoccuparci di che cosa vogliono le piante?”
Ministro della giustizia: “Brawndo ha quel che vogliono le piante!”
Ministro dell’energia: “Eggià, ha gli elettroliti.”
Joe: “Ma che cosa sono questi elettroliti, almeno lo sapete?”
Segretario di Stato: “È quello che usano per fare Brawndo!”
Joe: “E va bene, ma perché li usano per fare il Brawndo?”
Ministro della difesa: “‘Perché Brawndo ha gli elettroliti.”

Aldilà della paradossale ingenuità dei protagonisti e del contesto estremizzato, questo è un chiaro esempio di pensiero circolare legato ad un messaggio mediatico: i vari ministri di idiocracy nemmeno sanno che cosa siano gli elettroliti o perché mai le piante li desiderino, di fatto neppure sanno se è vero o meno che sia così. Ma sanno, avendolo letto e sentito ripetere infinite volte, che Brawndo ha gli elettroliti e che questo è ciò che vogliono le piante, e tanto basta. Parlano come se sapessero queste cose, come se fossero informati su questi argomenti, mentre in realtà ripetono a pappagallo qualcosa che hanno soltanto sentito reiterare tante volte dai media. Molti potranno sentirsi offesi dal paragone, ma è esattamente ciò che accade quando qualcuno discute di questioni di grande attualità, come ad esempio una guerra in corso in qualche paese del medio oriente. Spesso chi ne parla non ne sa nulla, non è mai stato in quei paesi e neppure ha la certezza che esistano quei paesi. Non ha alcuna esperienza diretta riguardo alla guerra in atto eppure ne parla con sicurezza, spiegando i motivi reali e nascosti che la hanno provocata. Si comporta come se avesse pensato queste cose quando di fatto ha soltanto seguito il percorso mentale che qualcun altro gli ha presentato. Parla di petrolio, religione, imperialismo, guerre, poteri occulti e lobby economiche né più né meno come i ministri dell’esempio riportato parlano di elettroliti: ripetendo la lezione di uno slogan.

Torneremo più avanti su questo meccanismo di finto pensiero. Qui basti osservare come la maggior parte degli individui nella nostra società ritengono di essere persone informate e consapevoli, capaci di pensare con la propria testa basandosi su un gran numero di nozioni, mentre di fatto stanno soltanto seguendo delle istruzioni per pensare fornite loro da altri.

© Stefano Re 2010

 

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EQUIVOCO DI CIVILTÀ

Tra i molti nomi che i media hanno affibbiato allo scontro in atto, si sente spesso parlare di “scontro di civiltà” o di “contrapposizione religiosa” tra quello che viene, impropriamente, definito “mondo occidentale” e quello che viene, altrettanto impropriamente, definito “mondo islamico”.

Quello che viene definito “mondo occidentale” sembrerebbe, dalla definizione, esser legato ad una locazione geografica. Ma così non è, perché in esso si fanno rientrare molti paesi che ad occidente non si trovano come ad esempio l’Australia, o il Giappone. Ancora, lo si ritiene caratterizzato da modelli politici di tipo rappresentativo-democratico, ma anche questo distinguo non regge, poiché se così fosse in esso rientrerebbero anche paesi come l’Iraq, la Palestina o l’Iran, anch’essi dotati di sistema rappresentativo-democratico, ma di fatto militanti nella opposta fazione.
Dall’altro lato si parla genericamente di “mondo islamico”, suggerendo una distinzione di tipo religioso. Ma anche questa distinzione risulta inesatta, poiché non solo il cosiddetto mondo islamico è in realtà una galassia animata da posizioni, interpretazioni e applicazioni di quel credo assai lontane tra loro, ma di fatto comprende stati in cui l’Islam non è considerato religione di stato, benché sia esso presente in forma anche massiccia nelle loro popolazioni. Questa distinzione risulta inoltre assolutamente assurda quando si considera che l’altra parte, il cosiddetto “mondo occidentale”, non è assolutamente identificato né, con buona pace di Pera, Casini e alcuni esponenti della Lega Nord, identificabile con il cristianesimo. Nel “mondo occidentale” al contrario risultano presenti in varia misura molte religioni, ed i cittadini dei paesi che nel “mondo occidentale” si annoverano godono del diritto individuale di libertà di credo religioso e sono tutelati dalla legge in questa scelta da eventuali conseguenti discriminazioni sociali o lavorative.

Di fatto, tutti i paesi del “mondo occidentale” ospitano più o meno rilevanti percentuali di credenti islamici. Così, dall’altra parte, anche i paesi del cosiddetto “mondo islamico” ospitano percentuali variabili di credenti di altre religioni, che però non godono in questi paesi di altrettante tutele contro le discriminazioni. Questa differenza è ciò che viene spesso lamentato come “mancanza di reciprocità”.

Se spostiamo la riflessione relativamente al passato, scopriamo interessanti analogie con altri periodi storici. Ad esempio li troviamo nel rapporto tra religione e vita, sociale e personale, che caratterizza il medioevo europeo. In quell’epoca storica il cristianesimo veniva percepito come elemento di definizione della vita quotidiana, a cui non veniva concepita alternativa e le cui digressioni erano sanzionate, tanto a livello mentale quanto fisico, come “peccati di infedeltà”. È il periodo in cui per maggior gloria della fede cristiana si mandavano i propri figli in guerra santa contro gli infedeli. Il periodo in cui le donne che mettevano in discussione leggi e regole finivano sul rogo come streghe. Il periodo in cui per la religione si uccideva e si veniva uccisi. Indubbiamente anche nel medioevo esistevano cristiani “estremisti” e cristiani “moderati”, e indubbiamente era fatto raro che i cristiani più “moderati” raggiungessero alte cariche di potere. Ancora, è nel medioevo che la religione cristiana trova centinaia di forme espressive parallele e concorrenti con infinite scissioni, eresie, correnti e divisioni. Ci sono voluti un illuminismo, delle sanguinose rivoluzioni, due guerre mondiali e molti anni di guerra fredda prima che gli stati del “mondo occidentale” superassero questa percezione della realtà e iniziassero a mostrare i segni di una differente forma percettiva.
Ritengo che questo paragone storico risulti utile sotto diversi profili. Anzitutto dimostra che non abbiamo, oggi, un problema di contenuti specifici di un credo (l’Islam) perché qualsiasi credo può essere, in uno specifico contesto percettivo, terra di coltura e strumento di fanatismi e violenze generalizzate. Così è stato il cristianesimo in Europa per centinaia di anni. Inoltre i notevoli paralleli che ho evidenziato offrono le basi per giungere finalmente ad identificare gli attori di questo “scontro” di cui vorremmo capire di più.

Ora, mi sembra evidente che gli attori non siano correttamente identificati da queste definizioni di “mondo islamico” e “mondo occidentale”: definizioni inesatte, imprecise, asimmetriche. E soprattutto fuorvianti.
Nel cercare nuove definizioni degli attori in causa però occorre anzitutto scartare la proposta avanzata da Marcello Pera di identificare l’“occidente” con la sue radici cristiane. Il messaggio di Pera è assai chiaro e apprezzabile: senza una identità non è possibile aprire un dialogo. Finché uno degli attori non sa chi egli stesso sia, non può gestire in modo costruttivo la comunicazione con l’altro. Ma l’identità cristiana non è adeguata poiché essa non è il carattere distintivo identitario dell’attore che continuiamo a chiamare “mondo occidentale”. Al contrario, un elemento realmente distintivo di questo attore è la sua “multireligiosità”, o in modo più preciso la capacità di mettere in discussione a tutti i livelli ogni forma di “credo”: sia esso politico, culturale e persino religioso. Dico “persino religioso” perché il dogma religioso è, per definizione, qualcosa di indimostrabile, e come tale indiscutibile. O ci si crede, o non ci si crede. E inevitabilmente conduce chi crede e chi non crede su opposte e inconciliabili posizioni. Eppure nel nostro mondo occidentale siamo giunti al punto in cui discutiamo persino su ciò che è “indiscutibile” per definizione. Questo elemento è ciò che distingue i due attori in conflitto oggi.

La distinzione non riguarda difatti né aspetti essenzialmente religiosi né aspetti essenzialmente legati alla struttura geografica. E tantomeno distinzioni essenzialmente politico-istituzionali. La distinzione, che appare poco identificabile, riguarda invece scelte di vita, costumi sociali, reazioni di massa ed individuali alle sollecitazioni, un diverso modo di “vivere” le fedi e la loro importanza nella propria vita, un diverso modo di considerare la vita e la sicurezza propria e altrui, un diverso modo di valutare ed interpretare gesti, atteggiamenti, situazioni.
Nel loro insieme, questa differenza si riassume in una diversa percezione della realtà e dell’identità.

Quello che definiamo “mondo occidentale” mostra i segni di un mutamento assai intenso, in atto ormai da un centinaio di anni, che vede l’emergere di valori quali il dialogo, l’empatia, la concertazione, il compromesso, la tutela delle minoranze, il riconoscimento dell’altro e del diverso, elementi che ho definito quali portato del Drive Femminile. Al tempo stesso si squalificano valori come l’uso della forza, la rigidità, l’onore, la violenza, elementi propri di quello che definisco Drive Maschile. Al contrario il cosiddetto “mondo islamico” mostra poca considerazione per i primi e molta per i secondi. In queste condizioni il dialogo risulta, evidentemente, assai complicato. Ciò che è inteso come “disponibilità” da una parte viene percepito come “debolezza” dall’altro; il gesto che vorrebbe dire “non voglio combattere” viene recepito come “ho paura di combattere”; quella che viene definita “integrazione” da un lato è percepita come “colonizzazione” dall’altra.

Nel cosiddetto “mondo occidentale” ormai tutto è discutibile e discusso: la ragione non è più un elemento assoluto ma sempre relativo, la ricerca di un punto di incontro è una missione. Al contrario, nel cosiddetto “mondo islamico” ben poco è discutibile e discusso: non per costrizione politica, semplicemente per modus percettivo. Non si tratta, sia chiaro, di una definizione “buoni” versus “cattivi”: si tratta di un differente modello percettivo. Che porta a differenti condizioni geopolitiche e sociali. Se difatti nel “mondo occidentale” le espressioni di estremismo e fanatismo sono considerate esagerazioni e aberrazioni e come tali posseggono un ridotto appeal sulla popolazione e ben poco potere politico, al contrario nel “mondo islamico” sono proprio i fanatismi e le estremizzazioni a raccogliere consenso e ammirazione e ad ottenere un potere politico decisivo.

Per questo i “moderati” del “mondo islamico” hanno poco potere e poco controllo sui loro paesi, per questo i “moderati” ne hanno invece sulle scelte dei paesi del “mondo occidentale”. Per questo delle vignette satiriche comportano nel “mondo islamico” reazioni di folla che neppure stragi terroristiche come quella delle torri gemelle comportano nel “mondo occidentale”.
Da questa differente percezione del dato di realtà e conseguentemente del dato di identità (personale e di massa) sorgono i problemi – spesso tragici – che stiamo affrontando in questi anni.

Quello che però, secondo me, non arriviamo a capire (noi per viltà, loro per cecità coerente alle loro premesse percettive) è che la comunicazione *nostra* e la comunicazione *loro* seguono binari e regole differenti. Regole che, appunto, dipendono dalla differente percezione della realtà e di conseguenza, della identità.
Noi scaviamo nella nostra, di identità, frammentandola e mettendola in discussione. Loro non possono farlo, perché facendolo uscirebbero dal loro stesso schema percettivo. Questo, nel momento del dialogo, si riflette in modo paradossale sul risultato pragmatico. Un esempio attuale, benché semplificato, per chiarire cosa sto dicendo a chi non pratichi di metacomunicazione è questo dialogo per nulla immaginario tra Europa e Iran.

L’Europa all’Iran: ferma il programma atomico, perché lo vediamo come minaccia
L’Iran all’Europa: non avete il diritto di dirci che cosa possiamo o dobbiamo fare
L’ Europa all’Iran: se fermi, o almeno ci dai un segnale che stai fermando, evitiamo di andare ai ferri corti
L’Iran all’Europa: i ferri corti non ci spaventano, smettete di farci pressioni e potremo anche dialogare
L’ Europa all’Iran: dacci un segnale di dialogo
L’Iran all’Europa: meritatevelo

L’Europa è convinta che la sua posizione in questo dialogo significhi: “cerchiamo insieme una via d’uscita”.
L’Iran percepisce questo: “ti minaccio, ma non porterò a termine la mia minaccia perché temo il conflitto aperto”.
Il segnale che l’Europa definisce “voglio venirti incontro perché è un bene reciproco” per l’Iran è “ho paura di te”. Il segnale che l’Europa attende in risposta, che per lei significherebbe “va bene, troviamo una forma di accordo che ci soddisfi entrambi” per l’Iran significherebbe “accetto che tu detti legge a me”.
I risultati pragmatici li abbiamo sotto gli occhi: noi ci preoccupiamo, loro si infervorano. La guerra in Iraq, aldilà di ogni lettura sui motivi contingenti più o meno realistici (petrolio, imperialismo, teoria del complotto), ne è un esempio palese: noi non sappiamo più fare la guerra, perché la rifiutiamo. Per cui, persino vincendola, la perdiamo. Loro non la rifiutano, perché la percepiscono ancora come un valore oltre che uno strumento. Per questo, la vincono anche perdendola.

© Stefano Re 2010

 

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LA DIFESA

Ovviamente la società cerca difesa dal crimine della follia. E non parlo in questa sede della difesa pragmatica, articolata nelle varie forme di prevenzione e repressione, materia che considero invero assai interessante e di cui mi sono occupato anche professionalmente per parecchi anni. Parlo qui di una forma di difesa che più interessa all’oggetto del libro, una linea di difesa percettiva.

Ci sono state ere in cui il comportamento aberrante guadagnava l’appellativo di monstrum, che letteralmente significa “prodigio”. La categoria del “mostro” permetteva una efficace alienazione del reo dal resto dell’umanità, con l’ausilio di adeguate spiegazioni irrazionali: possessione demoniaca, natura supernaturale dello stesso reo. Immaginiamo di vivere in un piccolo borgo medioevale. Un brutto giorno il bambino dei vicini scompare. Lo si cerca per giorni senza esito nelle boscaglie circostanti, e nel frattempo scompare un altro bambino. Qualcuno racconta di aver visto uno dei boscaioli camminare tenendo per mano un bambino e un folla di paesani inferociti si reca nella capanna del boscaiolo, trovandovi i resti smembrati di diversi fanciulli. Giocoforza il reo viene linciato e bruciato su un rogo improvvisato, e delle sue gesta altra spiegazione non si può dare che di natura demoniaca: ecco nascere il mito del Mostro. Streghe, orchi, vampiri, appartengono tutti a questa categoria: la spiegazione superstiziosa dell’efferatezza dei comportamenti umani. Di fatto il concetto di Mostro nasce e si sviluppa con la precisa finalità di circoscrivere la distanza di questi individui e dei loro comportamenti da quelli delle persone normali.

L’era della scienza non accetta più queste categorie elusive, e si opta quindi per una forma di alienazione più consona. Così nei tribunali nel giudicare atti di straordinaria ferocia è assai frequente un giudizio di infermità totale o parziale di mente. Aldilà di ogni disquisizione scientifica in materia, il significato profondo rimane quello di voler allontanare da noi queste persone in quanto portatori di atti inaccettabili, in quanto indesiderati rappresentanti di quella natura bestiale dell’essere umano che vogliamo con tanta forza relegare al passato – e al subconscio. A mio vedere questo comportamento, come molti altri atti ormai consueti di vigliaccheria imperante, è soltanto una enorme e pericolosa cazzata.

L’allontanamento di cui parlo non è ovviamente la segregazione fisica, pragmaticamente più che comprensibile, bensì quella mentale. La categoria dello “altro”, dello “outré”. In carcere stanno gli uomini cattivi, in manicomio giudiziario i pazzi criminali: gli alien(at)i. Essi sono precisamente gli eredi dei vampiri e degli orchi. Una volta venivano bruciati sui roghi, oggi vengono messi in manicomio e si tenta di “curarli” – ennesima assurdità, a parer mio. Eliminarli lo capisco: creano danni, è una soluzione pragmatica. Ma curarli, rieducarli, è come voler togliere le zanne ad una tigre per poterla fare circolare tranquillamente tra le pecorelle. Insegnarle a fare le capriole. Toglierle la sua natura per renderla “socialmente adeguata”. Ancora e soprattutto, la segregazione di cui parlo non ha a che vedere con il reo. Ha a che vedere con la testa di chi lo osserva, ovvero le persone “normali”. È la segregazione della categoria “orco” in età passate e della categoria mentale “malato di mente” oggi. Il reo viene alienato da noi e in noi attribuendogli caratteristiche di alienità (supernaturale in altre epoche, molto scientifica e documentata oggi). Di fatto, pretendiamo di “contenere” la ferocia in sé stessa, relegando nella casella “alieni” gli esseri umani che compiono atti di una certa efferatezza e poi cercando addirittura di “riconvertirli” alle nostre percezioni. Ma la ferocia non è un aspetto da prendere sottogamba, e nessuna etichetta mentale la può rinchiudere a lungo.

© Stefano Re 2010

 

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IL TEOREMA DEL BABAU

Uno dei meccanismi più tristi e ridicoli che mi è capitato di osservare è la – apparentemente inevitabile – necessità di trovare dei colpevoli per ciò che non ci soddisfa della nostra percezione del mondo.

Se siamo ridotti ad essere consumatori e niente altro, il babau sono i pubblicitari, i capi delle multinazionali, i politici venduti a biechi interessi di mercato, oppure le trame oscure di lobby segrete che vogliono tenerci buoni per poter tramare ancora un po’. Se c’è la guerra è per via della propaganda di sinistri cacciatori di potere, petrolio o seta, e quei poverini che crepano in trincea o per le vie di Baghdad sono pedine nelle mani di questi perfidi burattinai. Se dei giovincelli imbracciano il mitra per sforacchiare sottosegretari è colpa dei cattivi maestri, personalità forti che li influenzano, che li manipolano e ne distorcono le giovani, innocenti menti. Oppure anche dei servizi segreti deviati, che armano i delinquenti perché agiscano nel quadro della strategia della tensione. Se tre imbecilli picchiano a morte un ragazzo col codino è colpa di nefaste correnti sotterranee di neonazismo diffuse e coltivate grazie a oscure connivenze che chissà che piani ordiscono. Tutto ciò potrebbe essere anche vero, in parte minore o maggiore, ma di certo è una scemenza nel suo complesso cercare il babau di turno.

Non sono i pochi, potenti, furbissimi, forti e cattivi manipolatori di menti a forgiare questo mondo: siamo noi tutti a farlo. E lo facciamo non perché siamo manipolati e indottrinati dalle tv e dalle perverse ideologie – lo facciamo perché è comodo. E’ tremendamente più comodo adottare schemi di pensiero che elaborarne di nostri. E’ tremendamente comodo individuare i babau cattivi e potenti dietro ogni evento nefasto che ci circonda, e dare loro la responsabilità se il mondo non ci piace. Alla fine, è il classico processo mentale dell’ex partner deluso che esclama: “quella troia mi ha ingannato” o “quel bastardo mi ha fatto credere che”, quando siamo sempre stati noi a “voler credere che”. In questo modo la colpa è sempre degli altri, e più sono potenti o ricchi o dotati di misteriose capacità di condizionare le loro vittime più possiamo uscirne puliti e eroici nel puntare il dito. Purtroppo la colpa di quel che non ci piace è nostra e di nessun altro. Se le masse si lasciano manipolare da questo o quell’imbonitore non è perché i manipolatori ci sono, ma perché le masse li creano.

Quel che è peggio in tutto questo circo di deresponsabilizzazione generale è come si vada sempre in cerca di ricette preconfezionate, oltretutto insultanti nella loro parziale e faziosa stupidità. Non soltanto osserviamo ogni giorno discussioni ridicolmente superficiali attraverso i media e l’esposizione di questo o quell’opinion leader, ma la maggior parte delle persone ha la sfrontatezza di spacciare come propri quei pensieri.

Pensare è un lavoro, non un hobby. Ed è un lavoro alla portata di tutti che nessuno ha più voglia di svolgere. È molto più comodo leggere su un quotidiano o sentire in tv – ma anche leggere nel discusso sito di controinformazione – le proprie brillanti ed informate opinioni su tutto.

© Stefano Re 2010

 

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IL PERCHÉ

Il lettore più attento avrà forse notato che nel corso di questo libro parlo sempre di meccanismi e percorsi, di metodi e di strumenti, mai di significati e di motivazioni ultime. Insomma, parlo sempre del come e mai del perché. Le poche volte che tratto del perché, in effetti lo sfrutto soltanto per dare una caratteristica al come stesso. Questo è il regno del relativismo assoluto, un luogo dove il “perché” viene smascherato. In questo regno il “perché?” è una domanda che non c’è – se vi piace la filosofia. Oppure diciamo questi dati concettuali si relazionano tra loro sotto il metro di Plank, se preferite la Scienza. Al riguardo, trovo davvero curiosa la fallacia della domanda assurda. Il fatto è che gli esseri umani hanno questa curiosa tendenza a ripetere coattivamente un modello di interpretazione quando ha dato loro soddisfazione, spingendolo fuori dei regni in cui esso ha dominio. La domanda “perché?” è difatti uno strumento di grande valore finché il terreno su cui si posa ha forme che la nostra mente è in grado di possedere. Serve al bambino per definire le misure del suo mondo percettivo e quindi posizionarsi in esso. Insomma il “perché” non è una vera domanda (come tale non ha mai risposta) è un segugio che ci conduce fino ai limiti del misurabile. Poi però va lasciato lì: spostare la domanda “perché” oltre il dominio del formalizzabile non è come insistere a voler misurare la distanza tra due atomi con un righello di 15 cm, che pur impossibile è una questione di mera scala (size matters insomma), è come voler prendere con le mani un raggio di luce.
Il bello è che, a domanda impossibile, l’essere umano trova coerentemente risposta impossibile:
– perché esiste l’universo?
– Dio!

© Stefano Re 2010

 

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IL PREMIO

Dopo la pubblicazione dei miei primi libri sul Mindfucking, ho ricevuto una buona dose di email da parte di lettori più o meno soddisfatti. Parte di esse erano sorta di ringraziamenti, alcuni tra i quali mi hanno lasciato perplesso e divertito. In particolare, ho trovato in egual misura triste e comico chi mi ha scritto (e vi assicuro, non erano pochi) che grazie ai miei libri aveva ora degli strumenti affilati con cui ottenere vantaggi sostanziali: soldi, sesso, potere sugli altri. Sia ben chiaro, la mia tristezza non è di matrice morale: non giudico simili contentezze in quanto “malvagie”. Il giudizio morale non mi appartiene. Semplicemente, mi spiace che molti si siano fermati ai piccoli vantaggi impliciti in questi meccanismi perdendone il valore più profondo e, direi, esistenziale. Trovo riduttivo chi sfrutta scientemente il Mindfucking per vendere prodotti o fare carriera o risultare simpatico ad amici e amanti. Penso che un alchimista che scopra la pietra filosofale non abbia più alcun desiderio di fabbricare oro. Anzi, penso che possa davvero scoprire la pietra filosofale SOLO perché non ha più bramosia dell’oro che ne può ricavare.

© Stefano Re 2010

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