FemDom – preludio all’estinzione del maschio

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Pubblicato il: 6 Maggio 2015

FemDomFemDom, preludio all’estinzione del maschio è un saggio di Stefano Re. Una spietata, arrogante e dichiaratamente semplicistica ma tuttavia originale rilettura della storia del genere umano in tutte le sue sfaccettature travestita da saggio di psicologia / biologia / sessualità (che sessuologia fa tanto Costanzo sciò) / criminologia / costume.

Ah, giusto, di che parla? Parla di quote rosa, di cromosomi, di guerre e omicidi, di isole immaginarie, dell’impero romano, di tacchi a spillo, di cinema, di cinture di castità, di fruste e corsetti, di meta-comunicazione, di Bin Laden, di rivoluzioni, democrazie e dittature, di cristianesimo e di femminismo. E, sì: ne parla molto male, ma anche molto bene. Bene nel metodo, male nel merito, male come una mela appesa ad un albero, in mezzo a un giardino.

Al di sotto delle apparenze e delle chiacchiere, il maschio come “genere culturale” si sta estinguendo.

Il femminismo già aveva messo in crisi il ruolo dominante del maschio nelle società industrializzate, ma dagli anni Settanta in poi, in ogni ambito: culturale, sociale, professionale, nel cinema e nelle pubblicità si è andato sviluppando un lento ma costante processo di erosione dei “caratteri” maschili.

L’evolversi di una civiltà sempre più basata sull’intelligenza flessibile, sulla capacità di adattamento e la mediazione dei conflitti personali e sociali, vede il maschio mostrare i primi segni dell’usura e dell’inefficacia laddove le donne dimostrano adattabilità alle esigenze della società mediatizzata e sono immuni da alcune tare ereditarie del maschio e come tali evolutivamente destinate a dominare la società del futuro.



 

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Estratti da FemDom

» Femdom Culturale

» La minaccia dell’indifferenziazione

» Il “paradigma prevalente”

» Democrazia e Totalitarismo

» Cinema e ruoli

» La casa e i figli

» Il Tramonto di Marte

» Padrone in rete


FEMDOM CULTURALE

La cultura è stata, per molti pensatori, la legge della realtà del Maschio, contrapposta alla sensazione, al diretto sentire di matrice femminile. Eppure anche questo tempio di regole e determinazione sta cedendo al fascino della femminilità. Il modello mentale maschile, come abbiamo visto, tende a processare la realtà sulla base di modelli teorici, di schemi astratti e di simboli. E in precise categorie simboliche egli ha descritto la donna e le forme di relazione con lei. Quando François de la Rochefoucauld scrive “Si può anche trovare una donna che non ha avuto esperienze amorose, ma è raro tuttavia trovarne una che ne ha avuta solo una”, raffigura molto bene quel passaggio non sfumato né sfumabile tra la donna casta e pura e la donna corrotta e viziosa, entrambe icone della cultura e stereotipi di femminilità. Ovviamente il primo modello è quello pubblicamente lodato e ricercato, mentre il secondo è quello privatamente desiderato. Queste due immagini femminili, la santa e la puttana, sono da sempre associate ad altrettanti modelli di relazione, che vedono la santa come punto di riferimento e la puttana come strumento di divertimento. Per questo il modello casto è visto come necessario nelle donne con cui si hanno legami familiari di dipendenza, la madre o la figlia, mentre quello dissoluto è riservato alle donne con cui non si crei un vincolo di dipendenza.

Lo stesso concetto di prostituzione si basa sul meccanismo del pagamento, che altro non è che un modo per affrancarsi dal bisogno di stabilire un legame di qualsiasi tipo. Pagare una donna per avere i suoi servigi sessuali è quindi un modo per distanziarsene, un modo di stabilire la differenza tra le donne con cui si hanno legami – donne caste e pure – da quelle con cui si esplora il vizio. Se però riguardo alla madre e alla figlia il tabù sessuale esprime un veto, e riguardo alla donna sconosciuta può invece esprimersi, la figura della compagna esige una riflessione più specifica. La compagna di vita, infatti, non è un incontro occasionale. Non è un sogno erotico in cui immergersi e di cui disfarsi in seguito, bensì una costante. Per questo l’immagine della moglie viene tradizionalmente associata al modello di purezza e castità secondo il più classico schema greco. La puttana, distante dalla famiglia, è adatta al piacere, mentre la moglie è adatta a gestire la famiglia ed educare i figli. Il passaggio da donna sconosciuta e distante a moglie trasforma quindi in qualche modo la donna nella percezione maschile. Il legame che si crea tra marito e moglie stabilisce infatti un nuovo e diverso status della donna, che la avvicina e la lega strettamente al Maschio. E proprio in questa vicinanza e in questo legame ha origine la tipica diminuzione del desiderio del marito verso la propria moglie. Per questo motivo inquietudine e timore sono associati all’idea di restare vincolati alla donna viziosa, la donna desiderata nel suo fascino sensuale. Restare preda di questo genere di donna per una notte è null’altro che un bagno in acque infide, ma proprio per questo anche un’esperienza in sé purificante. Ma quando questo genere di donna avvince l’uomo, allora il Maschio vede crollare il suo schema manicheo e con esso la propria messinscena salvifica.

Uno dei più sconvolgenti effetti dell’affermazione del Drive Femminile è l’emergere dell’immagine culturale di una nuova donna, insieme casta e impura, insieme consolatoria e crudele, insieme quotidiana e mondana, santa e puttana al tempo stesso. Questa nuova donna rifiuta di farsi inserire nello schema maschile, rivendica il proprio potere sessuale e ne fa uso in piena libertà. Questo tipo di donna coglie l’uomo totalmente impreparato, lo avvolge senza lasciargli alcuna via di uscita e ne diventa inevitabilmente padrona.

È la cosiddetta “Belle Dame sans Merci” (‘Bella dama senza pietà’): figura ora eterea ora assai carnale, che utilizza la sua femminilità e il suo fascino per ammaliare, catturare, schiavizzare gli uomini e utilizzarli per i propri scopi, senza alcuno scrupolo per il dolore mentale o fisico che possa loro recare in tali manovre. È il prototipo dell’ammaliatrice o, in tempi più moderni, della vamp. Talvolta è una donna ferita, che si vendica della cattiveria subita imponendone a sua volta, altrove è l’ingenuo fascino adolescenziale che misura il proprio potere come nella celebre Lolita, altrove è il semplice gioco di potere fine a se stesso dell’Angelo Azzurro. In alcuni tratti questa immagine si colora di perversità, mostrando godimento proprio nell’imporre sofferenze o nel vederne imposte, e nell’usare il proprio charme al fine di aumentare tali pene su coloro che ne cadono avvinti. È l’immagine di Wanda nella Venere in pelliccia di Masoch, dapprima affascinata dall’abnegazione di Severin, poi implacabile incarnazione di quella dominatrice che gode nell’umiliare e imporre ogni dolore al proprio compagno, oramai schiavo. Oppure è la figura della giovane e appassionata Clara del Giardino dei supplizi di Mirbeau, che si inebria del tormento dei condannati e ne osserva con voluttà gli atroci supplizi. Il soggetto letterario della donna crudele è stato per secoli inteso come un oggetto della fantasia sessuale maschile, di tipo essenzialmente masturbatorio. La donna spietata e mangiauomini, promiscua, con il suo armamentario di pellicce, stivali, fruste e giochi perversi viene anche oggi confusa e spesso vissuta da chi predilige stili di sessualità alternativa come un elemento di tipo masturbatorio, un balocco formato gigante, una bambola per adulti che risponda alle fantasie fornendo degli stimoli stravaganti ma tremendamente eccitanti per quasi ogni Maschio.

Eppure, la donna che domina è anche vista da quegli stessi uomini che fruirebbero con estremo piacere dei suoi servizi come uno spaventoso fenomeno destabilizzante. Quando e se, infatti, la donna che domina uscisse dalla camera da letto, dalla guaina in pelle nera e dalla stanza dei giochi in cui l’uomo immagazzina e tiene ben chiuse le proprie fantasie devianti per rivendicare il proprio potere sessuale, sociale, affettivo e relazionale, l’uomo ne sarebbe completamente alla mercé. E – cosa che forse lo terrorizza più di ogni altra – sarebbe felice di esserlo.

Già in Ovidio la donna è musa, ispirazione e delirio del poeta. La sua bellezza conduce l’uomo alla sottomissione e alla schiavitù volontaria. E per la donna l’uomo patisce sofferenze, struggendosi per la sua volubilità da cui è però affascinato e dipendente. L’amore che Ovidio canta per la donna è promessa duratura, vassallaggio amoroso che lega per la vita. Medesima rappresentazione che fornisce D’Annunzio delle sue donne: Elena Muti, Ippolita Sanzio, la Foscarina per Eleonora Duse. Corrotte e pure al tempo stesso, che attirano e soggiogano i personaggi maschili diventando loro meta irraggiungibile. La Belle dame sans merci è in D’Annunzio: figura da sempre presente nell’immaginario collettivo dell’Occidente, a partire dai miti greci e latini fino ai drammi elisabettiani, e da questi alla Letteratura del Romanticismo e del Decadentismo; i tratti fondamentali della donna fatale sono il fascino perverso e soggiogante e la straordinaria esuberanza fisica, che conducono all’inevitabile asservimento, e spesso al completo annientamento psicologico ed emotivo del partner maschile.

Che sia concreta e sensuale, oppure onirica ed eterea, la Donna Venerata resta irraggiungibile, intoccabile, mai veramente conquistata ma sempre conquistatrice, poiché attraverso il desiderio porta il Maschio alla sottomissione, alla rovina, alla follia o alla morte. Così accade nel poemetto che apre questo capitolo, La Belle Dame sans merci di John Keats, in cui il cavaliere errante si perde per la giovane sconosciuta fanciulla, schiavo del proprio desiderio e del sogno che lei ha incarnato. La donna come desiderio e fine della vita dell’uomo: meta agognata a un tempo fonte e dispensatrice di pace. Nell’amor cortese il mito del “cavalier servente” si compone culturalmente da due direttrici, in realtà opposte, della servitù verso la donna e l’amore e della capacità guerresca maschile. In realtà gli stessi poeti risolvono il paradosso affermando che l’amore acceca la guerra e la spegne divorando ogni passione maschile e indirizzandola verso l’adorazione servile della donna amata. Adorazione della donna come disinnesco della violenza maschile. Le più pericolose manifestazioni del Drive Maschile addomesticate dal desiderio.

© Stefano Re 2003

 


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LA MINACCIA DELL’INDIFFERENZIAZIONE

 

“La personalità si divide in maniera essenziale in personalità maschile e personalità femminile. Laddove non vi è un Tu non vi è un Io”
L. FEUERBACH

 

Un aspetto di questa mutazione in atto che desta non poche preoccupazioni è che 10mila anni di Storia non si dimenticano in un decennio. Tutti noi, Maschi e Femmine, portiamo nei nostri geni le tracce delle paure, dei desideri e dei successi dei nostri progenitori. E tutti ci troviamo a vivere calati in un sistema sociale, economico e culturale che è stato originato da una cultura di genere maschile. È evidente che grandi cambiamenti sono necessari per allineare le strutture sociali, il mondo produttivo e l’intera struttura della società ai cambiamenti in atto, ed è evidente che questo cambiamento debba essere attuato in tempi rapidi. In assenza di queste modificazioni, le donne entrano nel mondo del lavoro maschile e ne scalano i gradi di potere secondo strategie forzate e forzanti. Vi sono donne che sfruttano il cliché relazionale della donna passiva, offrendo servigi sessuali concreti o simbolici a colleghi e superiori al fine di ottenere potere e avanzamenti di carriera. Questo comportamento viene spesso osteggiato da altre donne, che vi vedono a ragione una profonda mortificazione della figura femminile e delle sue capacità professionali. Vi sono quindi donne che si inseriscono nel mondo del lavoro eliminando ogni aspetto di seduzione e concedendo espressione solo alla più piatta e impersonale professionalità. Questo modello sembra aver trovato ampia diffusione negli Stati Uniti, ad esempio, dove le rigorose leggi sulla discriminazione e sulle molestie impongono riti sociali nuovi e in parte assurdi, che bandiscono dall’ambiente di lavoro ogni sorta di confidenza o dialogo relativi a informazioni personali, relegandoli al “fuori orario” in una sorta di scissione della personalità “professionale” da quella “relazionale”. Le donne insomma cercano di trovare un modo di adattarsi alle regole del mondo produttivo quale è stato costruito dagli uomini, per gli uomini, secondo i criteri più ovvi da un punto di vista maschile. Risulta evidente che in questo ambiente le donne tendano ad assumere tratti mascolini associati alle posizioni di potere, e non stupisce di trovare una sempre più ampia femminilizzazione degli uomini che rinunciano a ruoli di potere in favore di queste nuove Amazzoni aziendali.

Altrove compaiono nuove forme di relazione produttiva, in cui la personalità individuale e le sue caratteristiche assumono un ruolo nuovo e differente. Troviamo quindi ad esempio modelli di interazione materna nella gestione di staff operativi, la rinascita di legami fiduciari ed emotivi in ambiente lavorativo e via dicendo. Strade nuove e certamente dense di insidie e problemi, che sembrano indicare nuove vie percorribili verso un nuovo mondo del lavoro e una diversa società produttiva. Non sappiamo dire se e quando queste nuove forme di relazione professionale troveranno diffusione e con quali risultati. Ma certo resta che, in un panorama lavorativo che indica come unico metodo di inserimento e avanzamento la mascolinizzazione della donna a fronte di una femminilizzazione dell’uomo, si creano le premesse per una generale confusione dei ruoli e delle aspettative di genere, che si traduce ancora una volta in un problema assai profondo di identità.

© Stefano Re 2003

 


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IL “PARADIGMA PREVALENTE”

Un concetto simile viene esposto da diversi autori di posizione femminista con il nome di “paradigma prevalente”. Nel pensiero femminista questo modello si identifica però con il sistema patriarcale e ne contiene modalità e scale di valore, cui viene contrapposto un possibile paradigma matriarcale, descritto come una struttura di valori e relazioni alternativa. Nell’ottica femminista, con il concetto di “paradigma prevalente” si indica quindi il confronto tra due possibili sistemi di valori, mentre in questa sede, parlando di cultura di genere, vogliamo riferirci a un livello più profondo della percezione umana: al livello di definizione del criterio stesso di realtà. Parliamo qui del livello in cui si decide come la realtà venga percepita, ossia di un meta-livello cognitivo.

Per il lettore che non sia familiare con il concetto di meta-comunicazione ne esemplificheremo qui di seguito alcuni concetti fondamentali. Si prenda in considerazione quale esempio un dialogo tra due persone. Anzitutto in esso identifichiamo il contenuto, ovvero ciò che una frase esprime, come “oggetto della comunicazione”. Definiamo invece le regole della grammatica che compongono la frase come “struttura della comunicazione”. Mentre l’oggetto viene definito durante il dialogo, quando una persona lo enuncia a un’altra, le regole non vengono stabilite in quella occasione, ma sono acquisite in precedenza da entrambi i partecipanti al dialogo, e precisamente nel livello di “meta-comunicazione”, che letteralmente significa “comunicazione sulla comunicazione”. Definire le regole tramite cui si dà corpo a una frase è evidentemente un’operazione che non può essere fatta durante un dialogo, a rischio di rendere indecifrabile la comunicazione stessa. Le regole devono essere definite su un piano differente, ovvero su un livello “superiore”. Nel caso della grammatica, esse vengono acquisite quando si impara a parlare, per poi essere utilizzate il più delle volte in maniera totalmente inconscia. Questo elemento è una costante nelle meccaniche proprie della meta-comunicazione: ciò che si apprende e definisce quale meta-livello viene in seguito normalmente utilizzato senza alcuna coscienza di esso.

L’ipotesi di questo libro è che il sistema percettivo della realtà che apprendiamo non soltanto a scuola e in famiglia, ma persino come precipitato genetico di 10mila anni di Storia, altro non sia che il frutto di una cultura di genere fondamentalmente maschile. Applicare a questo meta-livello percettivo il concetto di cultura di genere comporta che ogni manifestazione che approcciamo – sia essa pensiero, azione, struttura sociale, definizione di valori o altro – è necessariamente inquadrata e contenuta nella percezione di genere. Come ci insegna la Pragmatica della comunicazione, diventa pertanto impossibile commentare questa realtà dal suo interno. In termini pratici, definire la nostra attuale percezione di realtà come frutto della cultura di genere propria del Drive Maschile rende ogni manifestazione percepibile inevitabilmente sottoposta a essa. Quindi lo stesso Femminismo, o il concetto di paradigma prevalente, non sono altro che espressioni della cultura di genere dominata dal Drive Maschile.

Introducendo quindi un primo fondamentale spunto di riflessione nonché una delle ipotesi di partenza di questo libro, ci poniamo nell’ottica che la realtà quale viene oggi comunemente percepita e condivisa altro non è che espressione di una cultura di genere o, per meglio dire, l’immagine proiettiva del risultato di una interazione dei due generi quale si è dipanata nel corso dell’intera Storia umana. Se consideriamo la ricerca nel suo insieme figlia di un sistema culturale “di genere”, la stessa nascita di discipline come la Psicologia, la Sociologia e la Psicologia sociale risultano in tale ottica espressioni storiche di un preciso percorso di genere. La nozione medesima di “studiare la differenza di genere” è di per sé un concetto figlio delle necessità proprie di quello che definiremo tra poche pagine come Drive Maschile.

Se queste righe appaiono ora oscure, il lettore non tema: nel corso del libro scioglieremo questi concetti in un linguaggio divulgativo, e li spiegheremo con semplicità. Qui basti dire che secondo tali premesse studiare i generi e le loro differenze usando i metodi scientifici finora analizzati è quasi equivalente a voler studiare le differenze tra esseri umani e abitanti del pianeta Marte ponendo entrambi i campioni di fronte a test come quello di imparare a memoria brani della Divina Commedia o descrivere le proprie emozioni ascoltando una sinfonia di Mozart.

© Stefano Re 2003

 


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DEMOCRAZIA E TOTALITARISMO

Una delle conseguenze di maggiore portata delle direttive proprie del Drive Femminile è probabilmente l’affermazione del modello delle democrazie occidentali. Iscriviamo tale modello come correlato al Drive Femminile poiché la sua caratteristica fondante e ispiratrice è il raggiungimento del pluralismo, ossia la forma che consente alla maggior parte delle persone di esprimere le proprie necessità e di ottenere rappresentatività politica. Il pluralismo permette quindi alle minoranze di ricevere attenzione e risorse per il soddisfacimento dei propri bisogni. Altra caratteristica essenzialmente femminile propria delle Democrazie è il metodo della discussione e del confronto parlamentare per la valutazione e la gestione dei problemi. Abbiamo visto come la comunicazione e l’abilità verbale siano biologicamente sviluppate nelle donne, come la mentalità femminile tenda a considerare il contesto nel suo insieme per affrontare un problema e come ritenga essenziale il consenso dei coinvolti per prendere una decisione.

Tutte queste modalità e caratteristiche risultano elementi fondanti della democrazia, che utilizza per l’appunto la discussione come strumento di analisi e di gestione di un problema e la ricerca del consenso come metodo decisionale. Esemplarmente, i difetti tipici riscontrati nelle Democrazie sono i medesimi che lo stereotipo culturale attribuisce al genere femminile: lentezza nelle decisioni, eccessiva attenzione alle opinioni di tutti, eccessivo riguardo al consenso generale, fino alle banali accuse di “non saper prendere decisioni” o di “non sapersi prendere responsabilità”. È inoltre significativo che nelle Democrazie il ruolo della donna assuma un’importanza sempre maggiore, dapprima con conquiste di tipo legale, come l’uguaglianza giuridica, poi di tipo economico, con l’apertura a ruoli sempre meno marginali e secondari nelle attività produttive e, infine, culturale, con la possibilità di diventare esponenti di spicco delle diverse correnti ed espressioni dell’arte e del pensiero.

È indubbiamente assai più vicino alle priorità del Drive Maschile il modello autoritario-dittatoriale nel quale, per il raggiungimento dell’obiettivo e per l’efficacia immediata dell’azione, vengono sacrificate libertà e garanzie individuali, e in cui prevale un’immagine di condottiero unico: un’autorità che indiscutibilmente ricalca l’imago paterna nell’assunzione sia di oneri che di onori. La figura del dittatore decisionista, paterno e autoritario, assume in sé ogni responsabilità, si fa carico anzitutto della sicurezza del proprio popolo e, significativamente, è sovente accompagnata dal culto della personalità e dalla dura repressione delle opposizioni e delle forme di critica. È evidente come nel paradigma maschile il culto della personalità rifletta l’esigenza del Drive Maschile di ottenere una giustificazione esistenziale, così come la repressione della diversità esprime l’intensa necessità di affermare l’identità maschile. Ancora, i sistemi autoritari e dittatoriali vedono il genere femminile tipicamente ridotto a un ruolo strumentale sia in termini produttivi – viene relegato a ruoli di assistenza privi di responsabilità direttive – sia in termini relazionali – viene relegato alle attività domestiche e in particolare alla procreazione. Più in generale la condizione della donna risulta costretta fortemente a quello stesso ruolo passivo-sottomes sosottomesso che, peraltro, il Drive Femminile ha privilegiato come strategia preferenziale nel corso della Storia umana. Inoltre i sistemi autoritari fondano le loro ideologie sulla rappresentazione della dimostrazione di forza e della capacità bellica come valori positivi, con la celebrazione di combattenti e la valorizzazione di caratteristiche tipicamente maschili come il coraggio, la forza fisica e la supremazia.

In tale ottica, la Seconda Guerra Mondiale può essere letta come un epocale scontro aperto tra le ideologie politiche totalitarie, ispirate dal Drive Maschile, e quelle rappresentativo-democratiche, ispirate dal Drive Femminile: un epico scontro simbolico tra Marte e Venere, che ha segnato un passaggio fondamentale negli equilibri di potere tra le differenti, talvolta opposte, fonti di ispirazione e guida primarie del genere umano. È nostra opinione che proprio dall’esito della Seconda Guerra Mondiale abbia preso l’avvio un processo di evoluzione e mutamento che non ha precedenti nell’intera Storia della specie umana, e che vede il Drive Femminile crescere di potere e influenza in modo esponenziale. Tutti questi segnali, fattisi sempre più intensi, potenti e manifesti negli ultimi decenni, hanno raggiunto un livello tale da rivelare una trasformazione decisiva in atto: un cambiamento epocale che giunge a conclusione di un lungo e complesso percorso storico di cui analizzeremo alcune tappe importanti nelle prossime pagine.

© Stefano Re 2003

 


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CINEMA E RUOLI

Nel cinema, il modello maschile di eroe contemporaneo, che potremmo chiamare John Wayne o Charlton Heston, forniva un’immagine dell’uomo e della donna che, pur già notevolmente ingentilita rispetto ai criteri del diciannovesimo secolo, lasciava comunque al Maschio alcune prerogative, tra cui appunto la difesa dai pericoli, principalmente dalla malvagità e dalla violenza di altri uomini. Gli stereotipi che nel cinema raccontano questo tipo di relazione sono molteplici: dall’eroe del Far West, parco di parole e pronto con le pistole e i pugni, all’eroe di guerra, che nella guerra e tramite essa si esprime e, pur senza amarla, vi trova ragion d’essere.

Questo modello maschile viene messo fortemente in discussione dall’arrivo dell’antieroe negli anni Settanta con il cinema di una Hollywood contestatrice in cui Dustin Hoffman rimette in discussione ruoli e attributi, denunciando la brutalità maschile e presentando dei protagonisti fragili, deboli, spaventati e per nulla imbattibili, che testimoniano una nuova sensibilità molto femminile. Ma dobbiamo giungere agli anni Ottanta per vedere sul grande schermo i sintomi di un ulteriore mutamento culturale. Contemporaneamente il modello di macho viene messo in discussione con film come Il braccio violento della legge, in cui non sono la malvagità né la stupidità ma è la stessa ansia di affermare la propria forza a trascinare al fallimento l’eroe di turno, un Gene Hackman che ricorre a tutti i suoi espedienti di poliziotto duro per incastrare un grosso spacciatore e finisce con l’uccidere per sbaglio un suo collega. Questo film disegna molto bene la crisi del macho, i cui muscoli e la cui brutalità non servono più a nulla, anche quando sono sorretti da ottime intenzioni e giuste cause, bensì generano fallimento e rovina per lui e per ciò che tenta di fare.

Se l’arrivo dell’antieroe ha in grande misura posto sotto critica il machismo, con la comparsa di personaggi femminili che assumono ruoli combattivi per difendere se stesse e i bambini, quando non addirittura degli uomini, dal nemico, il ruolo maschile diventa obsoleto. Emblema di questo nuovo tipo di personaggio è ad esempio il maggiore Ripley, ufficiale di bordo di navi spaziali interpretato nella saga di Alien dalla statuaria Sigourney Weaver. Ripley è una donna che, fin dal primo dei film della serie, si trova a dover affrontare un alieno dalle mostruose caratteristiche aggressive. Se nel primo film, datato 1979, Ripley si difende e tenta solo di sfuggire al mostro, riuscendo peraltro dove l’intero equipaggio fallisce e viene ucciso e divorato, nel secondo episodio del 1987 il ruolo della “nuova donna” emerge completamente: chiamato in soccorso da una colonia infestata dagli alieni assassini, un commando di Marines porta con sé Ripley come guida e conoscitrice del fenomeno. Ma i supermaschili Marines (tra di loro anche una donna che di femminile non ha più nulla) vengono velocemente uccisi uno dopo l’altro dai mostri. Per salvare se stessa, il capo dei Marines e una bambina, la donna dovrà affrontare con lanciafiamme e lanciagranate a tracolla orde di mostri terrificanti che hanno sbaragliato. L’abdicazione del genere maschile dal ruolo di paladino è simboleggiata dal sergente dei Marines, ferito e invalido, curato e assistito ma anche salvato dalla intraprendente Ripley.

Uno degli aspetti più significativi di questo personaggio è la sua validità di donna a tutto campo: materna con la bimba sopravvissuta, al punto da essere l’unica in grado di conquistare la sua fiducia e superare la barriera di silenzio che il trauma le ha imposto, coraggiosa fino allo spregio della propria vita nell’affrontare ogni rischio per salvare chi è in pericolo, implacabile fino alla ferocia con i terribili nemici alieni. Nel film la figura degli alieni risulta particolarmente significativa sotto vari aspetti. Anzitutto, scegliendo dei mostri che provengono da un altro pianeta si permette al personaggio guerriero di scatenare tutta la propria violenza senza che essa sia associata alla lesione di un altro essere umano o di un animale – benché feroce – del nostro ecosistema. Alien è il prototipo del “nemico assoluto”: orribile, disumano, crudele nella sua strategia di battaglia (immobilizza gli umani per usarli come ospiti delle proprie larve) e implacabile. E Ripley nel duello finale affronta nientemeno che la Regina degli alieni, Femmina e madre degli incubi che la donna ha ucciso fino all’ultimo. In questo duello persino il nemico è Femmina, quasi a suggerire che qualsiasi razza l’universo possa generare, comunque Femmina ne sarà il campione.

Si noti come nel cinema la figura del Maschio macho non sia affatto svanita, abbia al contrario assunto un vigore e dei toni sempre più esasperati, movendo da Rocky, il pugile sfigato che realizza il sogno americano, a Indiana Jones, scaltro avventuriero assieme colto e rozzo. La galleria assume poi toni sempre più astratti e irreali con i personaggi inverosimili che Silvester Stallone inanella, dai seguiti di Rambo (sul primo episodio della serie apriremo una doverosa parentesi nel prossimo paragrafo) e di Rocky ai vari personaggi “duri ed eroici” che faranno da battistrada a un intero genere, definito eufemisticamente “cinema d’azione”, e popolato da figure maschili totalmente stereotipate di cui Jean Claude Van Damme è un interprete recidivo. Più gustoso e sottile il percorso degli eroi raffigurati da Arnold Schwarzenneger, che già con il primo Conan introduce una visione assai interessante del “nuovo eroe” tratto dal fumetto, che vive solo nella fantasia senza alcuna pretesa di verosimiglianza.

Questo Maschio recupera ogni aspetto del macho eroico tradizionale, ma lo trasfigura in una rappresentazione onirica, sganciata dal piano del reale. Il Maschio Dominante diventa un fumetto, un’icona degna di cartoline, da riporre tra le figurine adesive dei supereroi. Curioso l’intero repertorio di Schwarzenegger, i cui personaggi offrono sempre un lato ironico, evitando di nutrirsi del più genuino senso nostalgico per la mitologia eroica e aggiungendo sempre pennellate piacevolmente autoironiche.

Degno di nota è che questa icona del muscolo e della mascolinità realizzi un film in cui, grazie ai progressi scientifici, rimane “incinto”, sperimentando le fasi e le emozioni della maternità. Il cinema, insomma, fornisce negli anni Novanta modelli di un uomo sempre più in crisi di identità, goffo nella sua forza, inutile nella sua brutalità, sciocco nel suo orgoglio, spiazzato da una donna che esplora senza tema il mondo maschile e ne scala i livelli di potere, ma che rimane misteriosa e incomprensibile ai suoi occhi.

In conclusione si nota come i tratti maschili cinematografici per eccellenza nel cinema, celebrati fino agli anni Sessanta e poi sottoposti a spietata critica, restino attribuiti sempre di più a immagini stereotipate, irreali, spinte verso il fumetto e la rappresentazione simbolica, mentre il cinema realistico ci propone sempre di più l’immagine di un uomo emotivo, attento, curato nel corpo, raffinato nei modi e sensibile all’ambiente: in una parola, un uomo sempre più vicino al Drive Femminile.

© Stefano Re 2003

 


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LA CASA E I FIGLI

Abbiamo visto come nel mondo del lavoro molti uomini cerchino rifugio nell’ufficio e nelle leggi maschili del mondo produttivo come un delinquente avrebbe cercato rifugio in chiesa negli scorsi secoli, e di come le donne siano giunte a invadere anche quei templi e sfidare la leadership del Maschio anche dietro la scrivania. Ma non tutti gli uomini resistono, scappano o si ribellano. Altri si inginocchiano, in senso metaforico o reale, e salutano le nuove Dee venerandole come tali. Anche di essi abbiamo parlato, poiché sono sempre di più e poiché, benché sopportino umiliazioni, tormenti e ogni altro genere di angheria, sembrano essere molto felici. Siano resistenti o sottomessi, il loro ruolo nella famiglia è inevitabilmente cambiato.

Una nuova funzione sociale va sempre più diffondendosi tra i Maschi, ed è quella di cura dei bambini. In un mondo che vede le donne sempre più dedite al lavoro, e gli uomini sempre meno sicuri di che cosa desiderino davvero dimostrare e a chi, rivolgere la propria attenzione e le proprie cure alla discendenza diventa un comportamento necessario e utile, oltre che consolante. Se infatti un’intera generazione è rimasta abbandonata da entrambi i genitori nelle mani di bambinaie e babysitter, oggi sempre più spesso i mariti o i compagni delle donne decidono di restare a casa a curare i propri figli, perché la propria moglie procura già un reddito sufficiente, spesso superiore a quello che potrebbero procurare loro, o forse perché, persa la funzione di “procacciare le risorse”, devono trovare un ruolo che dia loro se non dignità perlomeno un’utilità. Eppure, anche l’uomo che rimane a casa a badare alla famiglia non recupera il suo primitivo ruolo di autorità. Al contrario, si femminilizza nelle sue reazioni e assume la madre come modello per i suoi comportamenti.

Le motivazioni di questo meccanismo sono del resto assai comprensibili: il modello di comportamento materno è quello più adatto alla gestione della famiglia, affinato da millenni di gestione domestica femminile. La figura del “mammo” pone però problemi nuovi. Se infatti gli uomini assumono con molte difficoltà il ruolo sostitutivo di madri, le donne non sembrano motivate nel ricoprire quello di padri. Questo provoca la quasi totale assenza della figura del padre: i Maschi non lo vogliono fare più, le donne non lo sanno fare ancora. Il risultato è che i figli restano privi di figure chiare di riferimento. L’unico riferimento che rimane è quello dei media: la televisione mostra i caratteri dell’individuo, insegna ai ragazzi chi sono e chi possono essere. Ma il messaggio dei media è contraddittorio: dove tutto è per definizione fiction, la realtà è una rappresentazione. La minaccia dell’indifferenziazione alza la sua testa di gorgone. Per chi ne ignorasse le conseguenze, occorre accennare che la maggior parte dei comportamenti criminali, in particolare quelli più violenti ed efferati, vengono commessi da soggetti che riportano gravi problemi di identità sessuale. L’indifferenziazione non è un fenomeno da prendere alla leggera: la costituzione di una identità è una esigenza umana persino più fondamentale della fame o della sete. Intere generazioni rischiano di crescere in un clima di profonda confusione di identità, con conseguenze imprevedibili.

Sono necessari nuovi modelli di famiglia che siano stabili e a cui i figli possano fare riferimento. Non siamo nella condizione di indicare quali siano le strade da percorrere, come non siamo in grado di affermare se il ritorno a tradizionali ruoli maschili, che i movimenti per la salvaguardia del Maschio auspicano, sia o meno praticabile, o se al contrario la società debba accentuare il ritmo del cambiamento e giungere a una nuova e differente forma di equilibrio. Lasciamo al lettore il giudizio su queste questioni, augurandoci di aver gettato luce su un fenomeno importante e fornito validi spunti di riflessione.

© Stefano Re 2003

 


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IL TRAMONTO DI MARTE

 

“Siamo una generazione di uomini cresciuti dalle donne. Mi chiedo se un’altra donna è veramente la riposta che ci serve”
TYLER DURDEN, nel film Fight Club

 

Osservando la società non possiamo non notare alcune significative modifiche recentemente intervenute: tra queste figura certamente la costante e completa squalifica dei tratti maschili. Forza fisica, orgoglio, desiderio di conquista, durezza di carattere, limitata espressione dell’emotività, impostazione logica e razionale erano tutte considerate espressioni qualificanti un essere umano di sesso maschile e godevano tutte di un valore positivo fino a pochi decenni fa. Eppure oggi sono tutte, quale più esplicitamente quale meno, considerate espressioni sconvenienti, ridicole, quando non patetiche. Sono tutte oggetto di critica e reputate alla stregua di difetti da correggere. L’uomo deve oggi mostrarsi misurato nella manifestazione della propria forza, nascondere il proprio orgoglio, abbandonare ogni comportamento di durezza e mostrarsi sensibile e in grado di esprimere le proprie emozioni. E deve saper abbandonare la propria razionalità per rendersi ricettivo verso ciò che è sfumato, poco chiaro, inconoscibile.

Flessibilità e sensibilità sono le nuove qualità maschili, e ciò che per ere intere è stato parametro di identificazione viene in pochi decenni ridotto a icona rappresentativa nelle locandine dei film. Un mutamento radicale è intervenuto nelle aree più evolute del pianeta, o per meglio dire si è avviato a compimento, proprio negli ultimi trent’anni. Un mutamento che vede il Maschio e il Maschile perdere ogni certezza e ogni solidità, talvolta irrigidirsi come una statua di gesso (o nell’inutile sfoggio puramente etetico di corpi “palestrati”), avvizzire a ritmo accelerato, creparsi e quindi frantumarsi in mille pezzi, altrove invece perdere definizione, sciogliersi e deformarsi come un fantasma cangiante, che pare debba trasformarsi: ma in che cosa esattamente?

© Stefano Re 2003

 


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PADRONE IN RETE

Internet, il calderone dell’inconscio collettivo che permette ogni sorta di proiezione e vissuto mediato, ha fornito alle nascenti esigenze di alternanza di potere dei generi il terreno ideale per affacciarsi, esprimersi, sperimentare e farsi realtà. Ma Internet è, nella sua infinta contraddizione, privatissimo spazio intimista e pubblica piazza di cui chiunque fruisce: esibizionismo assoluto dell’anonima mente umana e dei suoi fantasmi più segreti. Ciò che era proibito oggetto del desiderio, fantasia masturbatoria maschile nel sonetto e nel libro, ciò che era patologia, immagine e comportamento chiuso nei libri di medicina della mente e nelle stanze da letto a pagamento di ogni epoca e civiltà è stato annunciato al mondo dal monitor. Dapprima racchiuso in ambigui e privatissimi circoli virtuali, popolato da improbabili nomi mitologici e acronimi incomprensibili, si è poi man mano diffuso, aperto alla vista e decodificato, persino spiegato nei suoi dettagli tecnici ed esibito come pietra dello scandalo, talvolta enfatizzato come fonte di salvezza, misura e spiegazione dell’intera esistenza umana. Da peccaminoso e vietato sudore notturno è divenuto costume esibito, provocatorio atteggiamento, moda e stereotipo. Ed ecco che, sulle rovine di questa esplosione di fruste, tacchi, corpetti e pellicce, le eredi di Wanda prolificano, le emule di Clara ed Elena si riproducono, la progenie di Lilith emerge trionfante per assegnare al Maschio il ruolo che gli spetta: stare ai loro piedi.

L’impatto emotivo iniziale, le immagini di tacchi a spillo puntati sul volto maschile, di uomini inginocchiati a baciare stivali e di fruste che disegnano arabeschi sulle natiche di poveri mariti sottomessi non deve però rendere ciechi di fronte a ciò che sotto questa superficie si indovina, cresce e si afferma. Non si tratta di donne-strumento, non si tratta di giocattoli nelle mani dei Maschi, che svolgono soltanto un ruolo predefinito di “variabile” nel loro immaginario erotico. La Dominatrice o Mistress non è come potrebbe a un primo approccio sembrare il frutto di una noia sessuale imperante, la salsa piccante che un Maschio stanco e decadente ricerca come panacea del desiderio. Queste donne affiancano poesie a osservazioni sui metodi migliori per umiliare il proprio partner, discutono sulle gradazioni di sofferenza e frustrazione che i loro compagni possono sopportare e su come miscelarli con gratificazioni emotive e sessuali, litigano sul valore della frustata richiesta e ottenuta dal Maschio sottomesso. Non si tratta dell’ochetta bella ma senza anima né cervello, ma della vicina di casa, della compagna di classe, della collega di lavoro che scopre di avere un potere e che contempla la possibilità di usarlo. Le Donne Dominanti sono uscite dalla rivista pornografica per entrare nella vita quotidiana. La Virago non è più una donna speciale, ma qualcosa di speciale e potenzialmente presente in ogni donna. Maschio, sei avvertito.

Nel trattare il FemDom occorre anzitutto chiarirne la collocazione. Il FemDom o Dominazione della Donna è per alcune persone uno stile di vita e per altre un gioco erotico di “sessualità alternativa”, ed è di norma considerato come una delle categorie più note e diffuse del BDSM. BDSM è un acronimo di lingua inglese che sta per Bondage e Disciplina, Dominazione/Sottomissione e Sadomasochismo. Con questo termine si fa riferimento a livello internazionale a tutti quei giochi sessuali o stili di vita che afferiscono a queste forme di relazione principalmente sessuale, definita appunto “alternativa” rispetto alle forme di relazione considerate canoniche. Il BDSM è preso assai sul serio da chi lo pratica, e vere e proprie comunità di persone sia in Internet che dal vivo si incontrano, discutono e organizzano eventi e attività inerenti a questa comune passione. Come vedremo, molteplici sono le forme in cui le persone vivono e considerano questa attività: da ferrea regola di vita a passatempo erotico. Si rimanda il lettore al box nella pagina precedente per una definizione di terminologia tecnica del mondo FemDom.

Ampio spazio viene dato alle citazioni in questo capitolo. Abbiamo con questa scelta voluto fornire un tratteggio immediato del panorama che descriviamo, anche perché alcuni suoi aspetti risultano così lontani dal comune senso di realtà da risultare incredibili. Lasciar parlare direttamente le fonti è il modo migliore che abbiamo trovato per fornire al lettore un quadro verosimile di questa affascinante realtà. Proprio perché non parliamo di stereotipi o giocattoli di fantasia, le anime di queste Domine si mostrano naturalmente differenti, sfaccettate, e così si manifesta il loro modo di esprimere e utilizzare il potere che posseggono. Vediamo alcune significative espressioni di questi volti di dominazione.

© Stefano Re 2003

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